Episodio 4.8
Ma allora, che diavolo è sta famosa decostruzione? A sentir loro, i filosofi o piuttosto i professionisti della disciplina filosofica (che stanno all’amore per la conoscenza come il meretricio sta all’amore carnale), ci si perde in vocaboli esoterici, gerghi per iniziati, dispositivi linguistici che, come si sarà notato nel corso di questa faticosa ricostruzione storica, indispongono anche i più pazienti auditori. A sentire Derrida «la decostruzione non è una teoria, né una filosofia. Né una scuola, né un metodo. Neanche un discorso, un atto, una pratica. È ciò che accade, che sta accadendo oggi in quel che si chiama società, politica, diplomazia, economia, realtà storica, e così via. La decostruzione è l’evento.» (Come non essere postmoderni, p. 45)
Ma allora, daccapo, che diavolo è eventualmente la decostruzione? Probabilmente la risposta più esaustiva Derrida la fornisce nella Lettera a un amico giapponese, indirizzata al professor Isuzu che stava traducendo le sue opere nella lingua nipponica. «Già nella “mia” lingua c’è un intricato problema di traduzione per ciò che, qua e là, si potrebbe indicare con quella parola, per il suo uso e per la sua origine. E chiaramente, già in francese, le cose cambiano da contesto a contesto.»
Derrida confessa all’amico traduttore che, allorché tirò fuori dal cilindro il termine, non pensava sarebbe diventato tanto centrale, dato che si era semplicemente limitato a tradurre e adattare ai suoi scopi il termine Destruktion adoperato da Heidegger. Scartata “distruzione” per una connotazione troppo negativa e lontana dalle intenzioni del filosofo tedesco, si decise per “decostruzione” che già gli frullava in testa, e per conferma si rivolge al dizionario Littré, dove la trova: «L’uso grammaticale, quello linguistico e quello retorico si associavano a un uso “macchinico”. Questa associazione mi sembrò felicissima, molto adatta a ciò che tentavo di suggerire.» Derrida aggiunge poco dopo che tutti quei significati erano sì affini a quanto voleva esprimere, ma si limitavano solamente a indicare «certi modelli o regioni di senso, e non tutto quello che la decostruzione può indicare nella sua ambizione più radicale. Quest’ultima non si riduce né a un modello linguistico-grammaticale, né a un modello semantico, e meno che mai a un modello macchinico. Anch’essi andrebbero sottoposti a un’interrogazione decostruttiva.»
La spirale continua. Dopo aver ammesso che la parola era adoperata raramente in francese, «in qualche modo la si è dovuta ricostruire, e il suo valore d’uso» sarà determinato in Della grammatologia rispetto al suo “contesto”, che nella fattispecie era lo strutturalismo allora dominante.
«“Decostruzione” sembrava andare in quel senso perché indicava una certa attenzione alle strutture (che a loro volta non sono semplicemente idee, o forme, o sintesi, o sistemi). Decostruire era anche un atteggiamento strutturalista (…). Ma era anche un atteggiamento antistrutturalista – e la sua fortuna dipende in parte da quell’equivoco. Bisognava disfare, scomporre, desedimentare delle strutture (di ogni tipo: linguistiche, “logocentriche”, “fonocentriche” (…) socioistituzionali, politiche, cultuali, anche e anzitutto filosofiche.» Derrida ammette che, specialmente negli Stati Uniti, si è associata la decostruzione al post-strutturalismo, ma in questo modo si sottolineava unicamente l’accezione negativa lasciando da parte il suo compito ricostruttivo, e non a caso si vedeva nel prefisso (de-) più una demolizione che «un percorso genealogico.»
Derrida prosegue con le sue avvertenze al traduttore giapponese: «Comunque, e nonostante le apparenze, la decostruzione non è né una analisi né una critica. (…) Non è un’analisi, specialmente perché lo smontaggio di una struttura non è una regressione verso l’elemento semplice, verso un’origine non scomponibile. (…) Non è neppure una critica, in senso generale o in senso kantiano. (…) La decostruzione non è un metodo e non può essere trasformata in metodo. Soprattutto se si accentua il valore tecnico e procedurale del termine.» Ma tutto questo non basta, infatti Derrida deve aggiungere anche che «non è neanche un atto o una operazione. Non solo perché ha in sé un che di “passivo” o di “paziente” (…). Non solo perché non dipende da un soggetto (individuale o collettivo) che se ne assuma l’iniziativa e la applichi a un oggetto, a un testo, a un tema, ecc. La decostruzione ha luogo, è un evento che non aspetta la deliberazione, la coscienza o l’organizzazione del soggetto, né della modernità. Si decostruisce. Qui il si non è una cosa impersonale che si opponga a una qualche soggettività egologica. È in decostruzione (…). E il “si” di “decostruirsi”, che non è la riflessività di un io o di una coscienza, si fa carico di tutto l’enigma.»
«Forse molto schematicamente direi che la difficoltà di definire, quindi anche di tradurre la parola “decostruzione”, dipende dal fatto che i predicati, o concetti definitori, significati lessicali e articolazioni sintattiche che paiono adattarsi momentaneamente alla definizione e traduzione sono decostruiti o decostruibili, direttamente o no, ecc. Il che vale per la parola, per l’unità stessa della parola decostruzione, come per ogni parola.»
Ed eccoci giunti alla fine del tunnel. «La parola “decostruzione”, come qualsiasi altra parola, trae valore solo dalla iscrizione in una catena di sostituzioni possibili, da ciò che troppo pacificamente si chiama “contesto”.» E perciò, conclude Derrida, «Che cosa non è la decostruzione? tutto! Che cos’è la decostruzione? nulla! Per tutti questi motivi, non penso che sia una buona parola. Soprattutto, non è bella. Certo ha reso dei servigi, in una situazione ben determinata. Per sapere cosa l’ha imposta in una catena di sostituzioni possibili, nonostante la sua fondamentale imperfezione, bisognerebbe analizzare e decostruire quella “situazione ben determinata”. È difficile, e non posso certo mettermi a farlo qui.»
Sommario 4.8
- Introduzione
- IL CINERADIOGIORNALE DEI FOLLI – Sieg Heil Klaus & Greta (con estratti da Fantozzi; Klaus Schwab, intervista 2022 + presentazione del World Economic Forum del 2023; fermo di polizia di Thunberg)
- La vita è un gioco a punti (dalla rivista Malamente, n. 25, giugno 2022) – ARTICOLO COMPLETO
- Derrida, Fear of Writing (dal film Derrida, 2002)
- VACCINO VACCINO VACCINO / Arrivano le nuove varianti: ci dobbiamo preoccupare? (TG3 sera, 11 gennaio 2023)
- Bill Gates: To Deal With the Next Pandemic (Munich Security Conference, febbraio 2022)
- CREDITO SOCIALE IN EMILIA ROMAGNA (Smart Citizen Wallet – Bologna, con la partecipazione dell’Assessore all’Agenda Digitale Massimo Bugani / Regole condominiali a Fidenza, marzo 2022)
- Piccoli Filosofi Decrescono – Maurizio Ferraris, ricostruire la decostruzione
- Breaking News – Imbrattata Greta Thunberg
Riferimenti 4.8
- Brian Eno & David Byrne, Come With Us + Mountain Of Needles + Mea Culpa + Help Me Somebody + Very, Very Hungry (My Life In The Bush Of Ghosts, 1981)
- Cinegiornali Istituto Luce, sigle varie (anni ’30-’40)
- Eddie Meduza, Heil Hitler (Radio Ronka nr. 2, 1990)
- Marce e raduni nazisti
- Mel Brooks, Hitler Rap (dal film To Be or Not To Be, 1983)
- Ernst Lubitsch, To Be or Not To Be (1942)
- Piano solo (Un sole rosso nel cielo, inno maoista)
- Un sole rosso nel cielo
- Natalino Otto, Pippo… cammina dritto! (1958)
- Tutti possono ascoltarti. Ma uno bravo sa davvero come aiutarti (Pubblicità, 2022)
- Secret Chiefs 3, Hamaya (Xaphan: Book of Angels Volume 9, 2008)
- Cerchi lo psicologo giusto? Fatti vedere da Unobravo (Pubblicità, 2021)
- Mike Judge, Idiocracy (2005)
- Fare soldi, Frum Frum (Paghetta, sappiamo dove abiti, 2012)
- Ndlovu Youth Choir, Jaba Jaba (Get the vaccine) (2021)
- Andrew London, Vaccination Song (dalla Nuova Zelanda, 2021)
- The Fighting Boys, Shuō dào zuò dào (Mantieni la parola data), video sponsorizzato dal Partito Comunista Cinese per propagandare il sistema dei crediti sociali (2019)
- The Belt and Road is How (Bambini cantano una canzone che celebra il Boom economico cinese)
- Secret Chiefs 3, Akramachamarei (Xaphan: Book of Angels Volume 9, 2008)