Venerdi 28 giugno 2024, alle ore 18.00, presentazione di UN FUTURO SENZA AVVENIRE alla Gelateria Popolare di Via Goffredo Mameli 6 a Torino.
UN FUTURO SENZA AVVENIRE (Torino, 28 giugno)
Bollettino radiofonico di critica radicale alla società cibernetica
Episodio 5.29
Potrebbe sembrare una forzatura il fatto di voler ricondurre quel poco che si agita – o meglio, agonizza rantolando – nel magma dell’antagonismo sociale alle vecchie, datate e ipoteticamente superate posizioni che fondarono quella sciagura politica chiamata Disobbedienti, uno degli ultimi prodotti novecenteschi della sinistra cibernetica. Le Tute Bianche, che parevano essersi dissolte al G8 di Genova tra i fumogeni della repressione e la fumosità dei loro propositi, grazie ad alcune abili mosse e camuffamenti, alla complicità non disinteressata di certe parti del “movimento” e ai voltagabbana di altre, sono risorte come cyberfenici dal coma farmacologico e oggi sfilano sul palcoscenico dell’opposizione mediatizzata come Tute Grigie, essendo cambiato il colore dopo un incauto lavaggio con certe divise del blocco nero. La loro rinnovata egemonia, o pretesa tale, trova conferma nell’avanzata subdola delle posizioni pro-cyborg e transfemministe, tecnofile e al tempo stesso impegnate in difesa dell’ambiente, proprio come preconizzato da Hardt e Negri. È bastato presenziare a un paio di saloni del libro indipendente e politico per notare il predominio incontrastato dell’ideologia post importata – almeno alle nostre latitudini – principalmente da Michael e Toni.
L’evento tenutosi poche settimane fa a Milano tra Calusca e Cox18 (Piccolo salone del libro politico), proponeva un palco di tutto rispetto dove si metteva in scena una finzione di quel dibattito che in realtà NON c’è, proprio perché con queste premesse NON può esserci (questo la abbiamo ripetuto al punto da risultare noiosi). Le vedette, chi più chi meno, sono accomunate dall’essere di estrazione universitaria, altro grande lascito della tradizione postmoderna, giacché a quanto pare la teoria politica è loro prerogativa esclusiva (d’altronde basta guardare la stragrande maggioranza dei libri editi). Si tratta di nomi che, chi più chi meno, provengono direttamente dalla tradizione della franco-italian theory, dalla papessa dell’eterotopia deleuziana al grande statista disobba propugnatore dei redditi di cittadinanza; e nel non dibattito si sono dati come argomento – almeno nelle intenzioni, giacché poi nel corso delle esposizioni hanno letteralmente divagato, passando di palo in frasca e riuscendo a dire più o meno niente e il contrario di niente – il massimo della riflessione attuale possibile. Il temibilissimo passaggio dalla società disciplinare made in Foucault alle società di controllo come individuata da Deleuze e di cui parlava nel Poscritto del 1990 (in Pourparler, pp. 234-241), che guarda caso era stato già affrontato paro paro proprio dai due gringos altermondialisti nel capitolo di Impero intitolato “Il biopotere nella società del controllo”. Siamo ancora e sempre allo stesso punto?
Nei prossimi episodi vedremo come l’ideologia paleo-postumana di Hardt, Negri e compagnia narrante, non soltanto continui a diffondersi e ad affermarsi tra le giovani e diversamente vecchie leve di un fantomatico movimento che sembra la clonazione riproduttiva della moltitudine, ma financo faccia breccia e furore – ennesimo paradosso di una civiltà che ha smarrito senso e significato – tra gli ipotetici anarchici e libertari che queste tendenze egemoniche, alter-governative e contropotenti dovrebbero per natura disprezzare e combattere.
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Sommario 5.29
Riferimenti 5.29
Episodio 5.28
Sull’onda della nascita del movimento contro la globalizzazione, Hardt e Negri si candidano a divenirne i principali ispiratori. Scritto fra il 1994 e il 1997, cioè dopo l’inizio della rivolta zapatista e prima della battaglia di Seattle, Impero – sebbene pieno di acrobazie, controsensi e talvolta brutali falsificazioni (come, d’altronde, il resto della produzione dei due) – preannuncia quella che sarà, nel trentennio a venire, la forma mentis e militantis della sinistra no-global. Infatti, dai gruppi più riformisti agli eredi di quella che in Italia fu l’autonomia (più o meno operaia) passando clamorosamente anche dai vituperati anarchici (o meglio, post-anarchici), in barba a differenze oramai più estetiche che sostanziali, la “moltitudine” degli autoproclamatisi ribelli, antagonisti, soggettività insorgenti e via narrando si forma e conforma a partire dalle mode politico-ideologiche rielaborate dal gatto e la volpe post-comunisti. Se la French Theory era una pappetta – dai gusti forti ma in fin dei conti insipida – cucinata nelle mense universitarie, ottenuta liofilizzando ingredienti ereditati dai numi tutelari di postmodernismo e poststrutturalismo, shakerando l’ultima produzione sociologica d’oltreoceano con l’aggiunta di qualche spezia cyberfemminista, l’intuizione del duo italo-americano è quella di innestarvi la sacra e sinistra tradizione italica che nel corso degli anni non si era eclissata, tutt’al più espatriata.
Già allora alcuni videro in questa operazione un puro e semplice tranello, una mano di vernice fresca data sulle mura decrepite di vecchi edifici teorici: secondo Claudio Albertani, si tratta di un «libro lungo e pieno di concetti oscuri come bio-potere, comando globale, sovranità imperiale, auto-valorizzazione, deterritorializzazione, produzione immateriale, ibridazione, moltitudine, e molti altri di difficile comprensione per lettori non iniziati», che per poter essere capito richiede «una certa familiarità con diverse scuole di pensiero: il post-strutturalismo francese, le teorie sociologiche nord-americane e l’operaismo italiano». (Impero e i suoi tranelli) Gran parte della bulimia intellettuale presente nella loro produzione è in realtà una trappola, un vortice di risucchio: infatti, pur prendendone le distanze e criticandone vari aspetti in modo formale, siamo di fronte alla riproposizione del marxismo-leninismo riveduto e corretto in salsa postuma(na), a un aggiornamento cibernetico del sistema operativo bolscevico. Seppur condannata a parole, si tratta della solita, vecchia ricerca dell’egemonia culturale, politica, strategica.
Dopo aver teorizzato l’esistenza di una nuova forma di governo imperiale priva di centro, vi contrappongono una resistenza altrettanto acefala, la moltitudine, che deve gran parte delle sue potenzialità proprio al fatto di essere figlia della civiltà cibernetica e come tale si candida alla conquista del potere e dei mezzi di produzione che sono sempre stati suoi. Dato che «l’ibridazione tra l’uomo e la macchina non procede più nei termini lineari che hanno segnato le vicende della modernità», si ipotizza che oggi «i rapporti di potere che hanno dominato le ibridazioni e le metamorfosi macchiniche possono essere rovesciati». Adesso capiamo che il nomadismo dei nuovi barbari secondo Hardt e Negri è più che altro virtuale, e mentre al sud del mondo si tratta di emigrazioni spaziali, fisiche, nel ricco occidente si tratta di metafore informatiche: «Le potenze scientifiche, affettive, linguistiche della moltitudine trasformano con estrema aggressività le condizioni della produzione sociale. La moltitudine si riappropria delle forze produttive con una metamorfosi radicale, come in una scena demiurgica. È una revisione completa della produzione della soggettività cooperante, una contaminazione e un meticciato con le macchine, di cui si era riappropriata, reinventandole completamente, la moltitudine. Si tratta, cioè, di un esodo che non è declinabile in termini esclusivamente spaziali, ma anche meccanici, nel senso che il soggetto si trasfonde in una macchina (nella quale ritrova la cooperazione che lo ha costituito e moltiplicato). È una nuova forma di esodo, un esodo verso (e con) la macchina – un esodo “macchinico”». (Impero, p. 341)
Si aprono le porte alla soggettività postumana, e da entità metaforica il cyborg inizia a militare nei ranghi della moltitudine. «Le nuove virtualità, la nuda vita del nostro presente, hanno la capacità di assumere il controllo della metamorfosi macchinica. Nell’Impero, la lotta politica sulla definizione della virtualità macchinica – e cioè sulle alternative del passaggio tra virtuale e reale – è il campo centrale delle lotte, poiché è il campo centrale della produzione e della vita che apre al lavoro un futuro di metamorfosi di cui la cooperazione soggettiva può e deve assumere il controllo sul piano etico, politico e produttivo.» (Ibid.) La sinistra postmoderna e post-anarcocomunista, dunque, trova nella figura del militante cibernetico il suo nuovo avatar, in quanto «agente della produzione biopolitica e della resistenza contro l’Impero»; ma gli autori tengono a specificare non trattarsi della solita vecchia figura del militante di partito o di organizzazione, questo è il passato, infatti nel nuovo mondo fluido e immateriale bisogna richiamare alla mente figure slegate dalla rigidità di dovere e disciplina, e quindi si pensa ai combattenti in Spagna o ai guerriglieri comunisti degli anni ’70, agli intellettuali antifascisti o ai Wobbly. Ecco la grande novità della militanza contemporanea: «essa recupera le virtù dell’azione insurrezionale maturate in duecento anni di esperienze sovversive, ma, nello stesso tempo, è legata a un mondo nuovo, un mondo che non conosce un al di fuori. La militanza conosce solo un dentro, la vitale e ineluttabile partecipazione al complesso delle strutture sociali senza alcuna possibilità di trascenderle. Il dentro è, allora, la cooperazione produttiva dell’intellettualità di massa e delle reti degli affetti, la produttività della biopolitica postmoderna. Questa militanza resiste nei contropoteri e si ribella proiettandosi in un progetto di amore. C’è un’antica leggenda che potrebbe illuminare la vita futura della militanza comunista: la leggenda di san Francesco di Assisi». (Impero, pp. 380-382) Amen.
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Sommario 5.28
Riferimenti 5.28
Episodio 5.27
Nel Duemila l’uscita di Impero di Michael Hardt e Antonio Negri – annunciato dal New York Times come un nuovo “Manifesto del partito comunista” – ci ha offerto un ottimo esempio del grado di penetrazione del paradigma informatico presso una certa sinistra militante. Analizzando la rimessa in discussione del principio di sovranità nazionale a opera della globalizzazione, i due autori abbozzano il ritratto di una nuova fase del capitalismo: quella imperiale. Traendo la propria forza da un’economia informatica deterritorializzata e dal controllo cosiddetto biopolitico degli individui, l’impero rappresenta a loro avviso una forma inedita di potenza politica. Per rispondere teoricamente a questa nuova età del capitalismo, propongono una rilettura deleuziana della modernità in cui il concetto d’immanenza spodesta qualunque idea di trascendenza e dove lo spazio simbolico della rappresentazione politica sembra essere stato svuotato. Attraverso l’abolizione delle barriere tra classi, sessi e razze, la potenza della comunicazione dell’impero contribuisce alla creazione di un movimento di resistenza di tipo nuovo: la moltitudine. Emergendo dalla massa informe degli oppositori alla mondializzazione, la moltitudine avanza, come dei nuovi barbari, con il volto mascherato dall’ibridità. A immagine del cyborg, la moltitudine non conosce alcuna frontiera.
Richiamandosi a Donna Haraway, gli autori di Impero proclamano a gran voce che bisogna costruire «un nuovo corpo» per «creare vita nuova» (Hardt e Negri, Impero. Il nuovo ordine della globalizzazione, Rizzoli, Milano 2000, pp. 206). In questo modo vanno a ingrossare le fila dei militanti del postumano, come traspare da certe affermazioni: «I corpi stessi mutano e si trasformano per dare vita a nuovi corpi postumani. La prima condizione di questa trasformazione corporea è la consapevolezza che la natura umana non è in nessun modo separata dal resto della natura, che non vi sono limiti fissi e immutabili tra l’umano e l’animale, tra l’umano e la macchina, il maschile e il femminile e così via. Ma, soprattutto, si tratta della consapevolezza che la natura stessa è completamente artificiale ed è aperta a nuove mutazioni, mescolanze e ibridazioni» (p. 205)
Questi nuovi barbari, definiti anche una «nuova orda nomade», operando mutazioni corporee danno luogo a un «esodo antropologico» che però, come loro stessi ammettono, «è comunque molto ambiguo poiché i suoi metodi, l’ibridazione e la mutazione, sono gli stessi impiegati dalla sovranità imperiale. Nel mondo oscuro della fiction cyberpunk, ad esempio, la libertà della cura di sé è spesso indistinguibile dai poteri di un controllo onnipresente». Dunque le trasformazioni auspicate da Negri e Hardt vanno ben al di là delle mode corporali tipo tatuaggi e piercing: «Si deve giungere a un artificio politico, un “divenire artificiale” (…) Gli infiniti percorsi dei barbari devono creare un nuovo modo di vita.» (Ibid.)
Abbandonando il feticcio della decostruzione, Hardt e Negri pensano sia giunta l’ora di produrre a partire dagli utensili/protesi: «costruire, nel non-luogo, un luogo nuovo; costruire nuove determinazioni ontologiche dell’umano e della vita – un essere artificiale e potente. La favola cyborg di Donna Haraway che si muove tra gli ambigui confini dell’umano, dell’animale e della macchina, ci trasporta oggi, molto più efficacemente del decostruzionismo, verso nuovi piani del possibile – e tuttavia bisogna ricordare che è solo una favola. La forza che può trasportare (e con sempre maggiore intensità) oltre queste pratiche teoriche, verso l’attualizzazione di potenziali metamorfosi, resta l’esperienza comune delle nuove pratiche produttive e la concentrazione del lavoro sul corpo – plastico e fluido – delle nuove tecnologie meccaniche, biologiche e comunicative. Essere repubblicani oggi significa, innanzi tutto, lottare contro l’Impero costruendo all’interno di esso, sul suo stesso terreno ibrido e modulare. (…) questo nuovo terreno imperiale offre enormi possibilità creative e di liberazione. La moltitudine, nella sua volontà di essere contro e nel suo desiderio di liberazione, deve spingersi dentro l’Impero per uscirne fuori dall’altra parte.»
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Sommario 5.27
Riferimenti 5.27
Episodio 5.26
Prima di continuare ad affrontare le parentele cibernetiche nelle epoche a noi più vicine, un’ultima divagazione sulla figura di Donna Haraway. Da aralda del cyborg e del postumano, questa scienziata sociale creatrice di vere e proprie mode ideologiche, come tutti i brand della sartoria d’eccellenza ha dovuto operare una continua innovazione per poter vendere i propri modelli. Infatti, nel suo ultimo lavoro di fantascienza politica chiamato Chthulucene abbandona le vecchie collezioni e si lancia in nuove fantasticherie al passo coi tempi, coniando un nuovo termine per descrivere quell’oggetto cibernetico già battezzato Gaia dal duo James Lovelock/Lynn Margulis e poi ripreso e ravvivato da Isabelle Stengers. Lo chiama Terrapolis, la città planetaria: «Terrapolis è ricca di mondo e vaccinata contro il postumanesimo; è ricca di compost e inoculata contro l’eccezionalismo umano, ed è ricca di humus: Terrapolis è pronta per una narrazione multispecie. Terrapolis non è la dimora dell’umano inteso come Homo, con la sua auto-immagine sempre uguale, fallica, al centro di ogni parabola, detumescente e ritumescente, ma è una dimora per l’umano che viene trasformato d’incanto – con un gioco di prestigio della lingua proprio dell’etimologia indoeuropea – in guman, colui che lavora la terra e nella terra.» (Chthulucene, p. 26)
Ma questa svolta in direzione dell’ambiente – che non a caso echeggia i progetti green del dominio e le sue città smart – rappresenta la sublimazione e non l’abbandono delle origini del suo pensiero, che pur superando almeno a parole il post-human resta profondamente ancorato alla disumanizzazione anti-naturalista: «Anche se continuo a nutrirmi del lavoro generativo inscritto in quel percorso, queste creature fibrose e tentacolari mi hanno reso insoddisfatta del postumanesimo. È stato il mio compagno Rusten Hogness a suggerirmi di sostituire il compost al postuman(esim)o, e l’humusità all’umanità (…) se solo potessimo sbriciolare e sfilacciare l’umano in quanto Homo, questa fantasia malata di un amministratore delegato perennemente intento ad autorealizzarsi e a distruggere il pianeta!» (Chthulucene, p. 54) Che il termine stesso di homo derivi da humus pare non interessare alla saccente accademica della supercazzola che, teorizzando una sorta di post-cibernetica, parte dalle sue radici storiche per aggiornarla e farla aderire alle nuove narrazioni pseudo-contestatarie. Haraway abbandona così i vecchi sistemi autopoietici – unità autonome che si «autoproducono» dotate di «confini spaziali e temporali autodefiniti che tendono al controllo centralizzato, all’omeostasi e alla prevedibilità» (Beth Dempster, A Self-Organizing Systems Perspective on Planning for Sustainability, tesi di laurea, Environmental Studies, University of Waterloo 1998) – per sostituirli con quelli simpoietici, concetto suggeritole da Beth Dempster, ovvero sistemi evolutivi che producono in maniera collettiva e non hanno confini spazio-temporali, in cui «l’informazione e il controllo sono distribuiti tra tutti i componenti». (Chthulucene, p. 54)
Non contenta, Haraway prende in prestito da Margulis il concetto di olobionte (Margulis, “Symbiogenesis and Symbionticism”, in Symbiosis as a Source of Evolutionary Innovation: Speciation and Morphogenesis, MIT Press 1991), per sottolineare non tanto l’impossibilità di ogni specie di vivere separata dalle altre e in particolare da quelle con cui sviluppa una profonda simbiosi, quanto la fine della separazione tra le specie. «Siamo humus, non Homo, non Antropos; siamo compost, non postumani. (…) Nello specifico, a differenza dell’Antropocene e del Capitalocene, lo Chthulucene è fatto di storie multispecie in via di svolgimento, di pratiche del con-divenire in tempi che restano aperti, tempi precari, tempi in cui il mondo non è finito e il cielo non è ancora crollato. (…) A differenza del dramma che domina il discorso dell’Antropocene e del Capitalocene, nello Chthulucene gli esseri umani non sono gli unici attori rilevanti; gli altri esseri non sono mere comparse che si limitano a reagire.» (Chthulucene, p. 85) All’orizzonte, si dissolve ogni differenza tra naturale e artificiale e si dichiara compiuto il passaggio all’ibridazione antropo-tecnologica: la nuova creatura sarà un cyborg biologico, magari anche equo e sostenibile.
Ma al di là dello sfoggio di acrobazie linguistiche, il progetto dei postumani compostati – purtroppo, non ancora rottamati – si è palesato in tutta la sua coerenza durante l’operazione pandemica, quando le schiere intersezionaliste si sono allineate al terrorismo scientista e hanno sostenuto reclusioni e distanziamenti, disinfestazioni e vaccinazioni. In un’intervista dell’estate del 2020 Haraway getta la mascherina e sforzandosi di non adoperare le categorie di opposizione binaria – tecnologia e natura – va dritta al sodo: «la tecnologia della “t” maiuscola ha lo stesso problema della scienza della “s” maiuscola: quindi tecnologie, lavoro tecnologico, know-how tecnologico, indagine tecnologica, sai, preziose conoscenze acquisite in lunghi periodi di tempo che davvero non vogliamo perdere. Direi che come fare un buon vaccino è un buon esempio. Questa non è esattamente una questione loro e nostra, anche se è vero che la produzione di vaccini è molto costosa e che lo stato ha rinnegato il suo obbligo, non solo negli Stati Uniti ma in molti luoghi, di assumersi la responsabilità della salute pubblica e dei suoi apparati, compreso lo sviluppo del vaccino e lo sviluppo del vaccino per chi e che tipo di canali di distribuzione. (…) Lo sviluppo di vaccini e lo sviluppo di farmaci richiedono le ultime novità in fatto di tecnologia digitale, tecnologia molecolare, tecnologia dei materiali. Supponiamo che tu voglia sviluppare vaccini resistenti al calore, in modo che possano essere davvero distribuiti in modo sicuro e ampiamente in tutto il mondo dagli operatori sanitari locali. Non vuoi avere bisogno di refrigerazione. Puoi immaginare la schiera di lavoratori tecnologici che vuoi concentrare su questi problemi, ma se sono concentrati su questi problemi pensando a loro solo in modi tecnici, potrebbero benissimo perdere il conto o non sapere in primo luogo, su come le popolazioni vivono in relazione ai patogeni, su come le popolazioni umane si relazionano ai patogeni e su come i patogeni entrano in diverse popolazioni umane in modo diverso. Il COVID-19 è di nuovo un ottimo esempio di chi è suscettibile e chi è esposto. Entrambi sono razzialmente differenziati e differenziati per classe in modi che non puoi perderti oggi. I nativi americani, i latini e i neri muoiono a più del doppio rispetto agli anglosassoni negli Stati Uniti di malattia COVID-19. Quindi, vaccini, certo! Ma perché certi gruppi, certe popolazioni umane, interagiscono con i patogeni in modo diverso dagli altri? Bene, questa è una questione politica, oltre che biologica, e culturale, e storica.» (“In the Heart of the Storm: An Interview with Donna Haraway – Part 1: Species-Being in the Age of Climate Change, Coronavirus, and Capitalism”, intervista di Katherine Bryant e Erik Wallenberg , in Bio-Politics, Vol 23, n° 3, 2020)
Se il sottotitolo della traduzione italiana di Chthulucene è per l’appunto “sopravvivere su un pianeta infetto” (il libro in realtà in inglese era intitolato Staying With the Trouble, qualcosa come restare accanto, o meglio coabitare, con il problema), ora capiamo cosa si intende: la supposta armonia delle specie è in realtà una presa per il culo e funziona soltanto quando fa comodo alla specifica narrazione. La convinzione che il presunto virus sia piombato sugli umani a causa dello spillover – unita al falso assunto secondo cui i popoli più deboli avrebbero patito maggiormente la mortalità virale – colloca i postumani al gusto di humus nel novero dei nemici dell’umanità libera e sottolinea una volta di più il loro ruolo cruciale nell’attuale antropocidio. Che personaggi simili, assieme alle loro idee, possano non sopravvivere all’infezione generalizzata dell’acrazia.
Donna Haraway, la natura e paura – Tra questi animali non umani, uno solo non è un peluche artificiale: indovina chi! (Soluzione in fondo alla puntata)
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Sommario 5.26
Riferimenti 5.26
SOLUZIONE: la teiera sulla panchina.
Episodio 5.25
Per un curioso dirottamento del senso, un pensiero nato dalla guerra e dal controllo militare è diventato uno dei principali punti d’incontro ideologico della sinistra americana, prima, mondiale poi. La biologa e storica delle scienze Donna Haraway ha aperto la strada pubblicando negli anni Ottanta il suo Cyborg Manifesto, di cui ci siamo già occupati nel corso della Quarta Stagione (Vedi in particolare episodi 4.23/24/25). Spingendo ai limiti estremi la critica dell’universalismo moderno, attacca quello che definisce “femminismo umanista” erede della modernità euroamericana. In una prospettiva postcolonialista e postmoderna, Haraway denuncia la fissazione delle identità in termini di classe, sesso e razza. Così come quella di razza, l’identità sessuale diventa nei suoi scritti una pura costruzione socio-storica destinata a naturalizzare uno stato di oppressione sociale. Di fronte a una simile naturalizzazione del potere maschile, l’abolizione cibernetica delle dicotomie tra natura e cultura, umano e macchina, maschile e femminile sono per lei una fonte di liberazione, permettendo alle donne di affrancarsi dal pesante giogo di essere femmine. (Donna J. Haraway, Manifesto Cyborg. Donne, tecnologie e biopolitiche del corpo [1985], Feltrinelli, Milano 1995, pp. 55-62)
Malgrado le sue origini militari il cyborg, quest’essere metà umano metà macchina, metà maschio metà femmina, incarna il livello di ibridazione raggiunto da questa liberazione identitaria. Haraway non nega il potenziale di dominio delle nuove tecnologie dell’informazione e del biotech, però vi scorge un’importante possibilità sovversiva. Il femminismo cyborg sogna un mondo ibrido, senza sesso e senza genere, dove le donne saranno finalmente liberate da quel ruolo riproduttivo predestinato dalla loro natura. Le tecnologie di riproduzione infatti sono l’ambito in cui il femminismo radicale più si accorda al progetto di rimodellamento del corpo umano dell’ingegneria genetica. Ma c’è di più.
In questi ultimi anni il pensiero – se così si può definire questo flusso psicotico di narrazioni speculative zeppe di acrobazie linguistiche e controsensi – di Donna Haraway e delle sue molte epigone si è evoluto in maniera subdola e pericolosa, in accordo con il coinvolgimento della sinistra postumana nel campo delle lotte in difesa della Terra in cerca di una rinnovata verginità. Non a caso il suo ultimo lavoro è diventato uno dei principali punti di riferimento per i movimenti verdi metallizzati che si agitano sulla odierna ribalta dello spettacolo della contestazione, sebbene dubitiamo assai che lo abbiano compreso (dato il linguaggio criptico e iniziatico) e forse nemmeno letto, proprio come gli altri testi di riferimento del trans/post/xenofemminismo.
Il suo Chthulucene. Sopravvivere su un pianeta infetto (raccolta di saggi scritti tra il 2012 e il 2016) meriterebbe forse una disamina più approfondita. Ci abbiamo provato, ma confessiamo di non averci capito un granché, smarriti tra frasi incomprensibili, linguaggio innovativo e veri e propri nonsense. L’idea che ce ne siamo fatti, con buona pace dei nemici delle pratiche coercitive psichiatriche tra cui ci annoveriamo, è che l’epoca sognata da questa corrente post-cyborg assomiglia a uno Psycocene, dove la mutazione genetica si sposa con l’ambientalismo e la violenza dell’ibridazione meccanica coabita con la simbiosi ecologica. In breve, una follia a metà tra infantilismo e allucinazione. Fin qui, nulla di nuovo.
«Lo Chthulucene ha bisogno di uno slogan, o anche più di uno. Oltre a gridare “Cyborg per la sopravvivenza sulla Terra”, “Corri veloce, mordi più che puoi” e “Taci e impara”, io suggerisco il “Generate parentele, non bambini!”. Generare e riconoscere le parentele è la parte più complicata e urgente di questa proposizione. Le femministe sono state le prime a sciogliere i presunti legami naturali e necessari tra sessualità e genere, razza e sesso, razza e nazione, classe e razza, genere e morfologia, sesso e riproduzione, persone che riproducono e persone che compongono. (…) Se vogliamo l’eco-giustizia multispecie, un tipo di giustizia che possa anche accogliere una popolazione umana diversificata, è tempo che le femministe prendano le redini dell’immaginazione, della teoria e dell’azione per sciogliere ogni vincolo tra genealogia e parentela, e tra parentela e specie. Batteri e funghi non fanno che fornirci metafore, ma le metafore non bastano: le metafore fondate sulla natura non sono sufficienti. Qui c’è da fare un lavoro da mammiferi, insieme ai nostri collaboratori e co-lavoratori simpoietici biotici e abiotici. Dobbiamo generare parentele in sinctonia e in simpoiesi.» (Donna Haraway, Chthulucene. Sopravvivere su un pianeta infetto, Nero, Roma 2019, p. 147)
Ci si potrebbe fare una grassa risata, leggendo questi o altri passaggi, non ci fosse invece da preoccuparsi della presa che tali deliri hanno sulle nuove generazioni di militontismo, anche in salsa ecologista, come dimostra il recente aborto (spontaneo) della manifestazione nazionale contro gli OGM-TEA a causa di dissapori interni dovuti alla mancata egemonizzazione da parte della sinistra transcibernetica che non può accettare di veder mettere in discussione la sua supremazia culturale.
Queste teorie, nate nel blackout mentale prodotto dalla fine della storia e favorite dall’arretramento delle teorie-pratiche dell’acrazia, riempiono le bocche dei suoi follower di paroloni come rivoluzione e anticapitalismo, sebbene rappresentino il fulgido esempio dell’impossibilità della prima, scaduta ormai nell’imperante riformismo socialdemocratico, e sanciscano l’ineluttabilità di un mondo dominato da finanza e tecnoscienze, vista la natura delle sue false opposizioni. Non soltanto queste figure, peraltro provenienti dal mondo accademico delle scienze sociali, sono strumentali alla perennizzazione dei rapporti iniqui che taluni chiamano Capitale, ma con le loro psico-narrazioni contribuiscono – chissà, forse positivamente – a sbugiardare come connivente col nemico e profondamente liberticida questo guazzabuglio postmarxista.
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Sommario 5.25
Riferimenti 5.25
Venerdi 24 Maggio al Circolo ARCI Cosmonauta e Sabato 25 Maggio a La Pancho Villa, presentazione del libro UN FUTURO SENZA AVVENIRE (Nautilus, 2024)
Il programma cibernetico si sta realizzando: un pilota automatico governa umani, animali e cose, organizza e controlla società e cellule. Il futuro – onnipresente – trionfa a colpi di informatica e nanobiotecnologie, robotica e astronautica.
Eppure, mentre la nostra specie si avvia coercitivamente verso il trans/postumano, si insinua il dubbio – quasi una certezza – che non ci sia un avvenire.
Il sistema o il caos, queste le due vie che ci sono date dall’evoluzione attuale. A meno di imboccarne una terza; ma è un sentiero così umile da sfuggire alla vista, benché inizi ai nostri piedi. La via della libertà è da inventare, e la scopriremo solo facendo il primo passo. (Bernard Charbonneau)
Episodio 5.24
Questa volta niente introduzione cibernetica…
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Sommario 5.24
Riferimenti 5.24
Venerdì 17 Maggio, a Napoli presso la Falegnameria Autonoma Libertaria, presentazione del libro UN FUTURO SENZA AVVENIRE (Nautilus, 2024)
Il programma cibernetico si sta realizzando: un pilota automatico governa umani, animali e cose, organizza e controlla società e cellule. Il futuro – onnipresente – trionfa a colpi di informatica e nanobiotecnologie, robotica e astronautica.
Eppure, mentre la nostra specie si avvia coercitivamente verso il trans/postumano, si insinua il dubbio – quasi una certezza – che non ci sia un avvenire.
Il sistema o il caos, queste le due vie che ci sono date dall’evoluzione attuale. A meno di imboccarne una terza; ma è un sentiero così umile da sfuggire alla vista, benché inizi ai nostri piedi. La via della libertà è da inventare, e la scopriremo solo facendo il primo passo. (Bernard Charbonneau)
Falegnameria Autonoma Libertaria, Via Tommaso Senise 10 (NAPOLI)
Venerdì 17 maggio dalle ore 19