Episodio 5.32

Episodio 5.32

Per spiegare come l’Assemblea di Hardt e Negri sia formata da “soggettività macchiniche” i due si appoggiano a Guattari, secondo cui spesso ci si è concentrati sulla questione della tecnologia mentre invece era solamente un sottoinsieme del problema delle macchine: «Dato che “la macchina” si apre verso il suo ambiente macchinico e intrattiene ogni tipo di relazione con i componenti sociali e le soggettività individuali, il concetto di macchina tecnologica dovrebbe essere esteso a quello di concatenamenti macchinici [ovvero agencements machiniques, traducibile anche come “assemblaggi”].» (Félix Guattari, “À propos des machines” in Chimères. Revue des schizoanalyses, n°19, 1993). Perciò il macchinico non soltanto è diverso dal meccanico, ma anche «dall’idea di una sfera del tecnologico separata e addirittura opposta alla società umana. (…) Il macchinico, allora, non si riferisce mai a una macchina individuale e isolata ma sempre a un assemblaggio.» Anche grazie a Deleuze e Foucault, si approda a una definizione di assemblaggio macchinico come «una composizione dinamica di elementi eterogenei che rifuggono l’identità e, ciononostante, funzionano insieme, soggettivamente, socialmente, in cooperazione tra loro. In questo senso il macchinico ha molte caratteristiche in comune con il nostro concetto di moltitudine, che prova a individuare soggettività politiche composte da singolarità eterogenee», tenendo però a mente che la moltitudine non è da considerarsi esclusiva degli esseri umani. Infatti il concetto di cyborg di Donna Haraway e «i suoi vari tentativi di combattere identità e soggetti essenzializzati» aiutano a infrangere il limite imposto dalla «nostra tradizionale separazione tra umani e macchine e tra umani e altri animali», motivo per cui gli assemblaggi macchinici includeranno tutti «gli esseri o gli elementi che stanno sul piano di immanenza. Tutto questo si fonda sulla tesi ontologica che pone umani, macchine e (ora) gli altri esseri sullo stesso piano ontologico.» (Assemblea, pp. 166-167)

Un altro aspetto importante dell’assemblaggio macchinico riguarda l’idea di “produzione antropogenetica”, per cui si sarebbe passati dal fordismo in cui si producevano merci per mezzo di merci al postfordismo in cui si assiste alla produzione dell’uomo per mezzo dall’uomo. Ma «la potenza di queste nuove soggettività macchiniche è solo virtuale fino a quando non viene attualizzata e articolata nella cooperazione sociale e nel comune», ovvero «la ricchezza e il potere produttivo del capitale fisso sono appropriati socialmente e si trasformano da proprietà privata a comune, allora la potenza delle soggettività macchiniche e le loro reti cooperative possono pienamente attualizzarsi.» Siamo tornati indietro al solito mito marxista-leninista della necessaria industrializzazione della produzione per il trionfo del proletariato che, magicamente, si sarebbe abolito, cent’anni dopo rivisitato in salsa postmoderna con tutti gli aggiornamenti del sistema operativo post-comunista. Come il capitalismo produceva proletariato rivoluzionario che l’avrebbe soppiantato, oggi i due guardano ai giovani «immersi in assemblaggi macchinici» la cui «stessa esistenza è resistenza», per il solo fatto di produrre. «Il capitale deve riconoscere una dura verità: non può che consolidare lo sviluppo del comune prodotto dalle soggettività da cui estrae valore, ma il comune si costruisce solo attraverso forme di resistenza e processi che si riappropriano del capitale fisso.» Qui starebbe a loro avviso la contraddizione su cui investire il loro gruzzolo di capitale militante: «autosfruttatevi, dice il capitale alle soggettività produttive, e quelle rispondono: vogliamo autovalorizzarci e governare il comune che produciamo. Qualsiasi ostacolo nel processo – e anche il sospetto di ostacoli virtuali – può portare a uno scontro sempre più profondo. Se il capitale può espropriare valore solo dalla cooperazione delle soggettività che al contempo resistono a tale sfruttamento, allora il capitale deve innalzare i livelli di comando e azzardare operazioni sempre più arbitrarie e violente di estrazione del valore dal comune», da cui ne scaturirà non maggiore asservimento e alienazione, bensì l’illusione di una rivoluzione non più proletaria ma moltitudinaria. (Assemblea, pp. 168-169)

Mentre Hardt e Negri tentano di sottrarre al capitalismo il primato cibernetico, c’è un’altra cosa che rivendicano per la moltitudine: l’imprenditorialità, la capacità produttiva e riproduttiva della cooperazione sociale. Per farlo, si appoggiano alla teoria dell’imprenditore di Joseph Schumpeter, sottolineando come il capitalista «riceve ingiustamente credito per una funzione imprenditoriale che viene svolta altrove» e che «l’imprenditorialità capitalistica riveli il potenziale della moltitudine». (p. 188) Nelle sue teorie scorgono un forte legame con l’idea di Marx secondo cui, a loro dire, «la cooperazione, mentre accresce la produttività, ha anche un effetto trasformativo sul lavoro, perché crea una nuova forza sociale produttiva» (p. 189), e lo citano quando costui afferma: «Nella cooperazione pianificata con altri l’operaio si spoglia dei suoi limiti individuali e sviluppa la facoltà della sua specie.» (Karl Marx, Il Capitale, libro I, cap. 11, p. 371 – trad. it. di Raniero Panzieri, Editori Riuniti, Roma, 1980) Dunque Schumpeter riconosce come Marx che «la chiave per aumentare la produttività (e quindi i profitti) è la cooperazione dei lavoratori coordinati con sistemi di macchine. (…) Le potenzialità dell’umanità vengono realizzate nella cooperazione, o per meglio dire, una nuova forza sociale si forgia in questo processo: un nuovo assemblaggio macchinico, una nuova composizione di uomini, macchine, idee, risorse e altri esseri.»

 

 

Sommario 5.32

 

Riferimenti 5.32

  • SZUM, TransHuman (2023)
  • Jonathan, Soviet Athem (Techno Remix) (2013)
  • Holger Hiller, Wenn Der Löwe Nicht Fressen Kann… (Holger Hiller, 2000)
  • Paul O’Dette/Andrew Lawrence-King/Pedro Estevan/Pat O’Brien/Steve Player, Jácaras Por La E + La Jota + Mariones Por La B + Cumbées + Payssanos + Giga de Corelli + Zarambeques + Marizápalos + Gallardas + Fandango + La Jota (¡Jácaras! 18th Century Spanish Baroque Guitar Music Of Santiago De Murcia, 2007)

Episodio 5.31

Episodio 5.31

Nella terza tappa del loro percorso, Comune. Oltre il privato e il pubblico del 2009, Hardt e Negri teorizzano un mondo comune «rispetto al quale non c’è alcun “fuori”», che per loro non è soltanto «la ricchezza comune del mondo materiale – l’aria, l’acqua, i frutti della terra e tutti i doni della natura», ma anche «tutto ciò che si ricava dalla produzione sociale, che è necessario per l’interazione sociale e per la prosecuzione della produzione, come le conoscenze, i linguaggi, i codici, l’informazione, gli affetti e così via». (pp. 7-8) Per giungere al comune la sinistra postmoderna cerca di sfuggire all’ambigua oscillazione tra modernità e antimodernità, per cui Hardt e Negri tirano fuori dal cilindro un nuovo concetto, quello di altermodernità. Consapevoli che il progetto moderno è impossibile da riscattare poiché saldamente in mano al comando capitalista, ma rifuggendo la tentazione anarchica e anacronistica di opporvisi in modo radicale, propongono ai post-comunisti questa terza via. «L’altermodernità segna una rottura più profonda con la modernità rispetto all’ipermodernità o alla postmodernità», ovvero deriva dalle lotte contro la modernità e dalle «resistenze nei confronti delle gerarchie che la infrastrutturano», ma «si dissocia dall’antimodernità di cui rifiuta l’opposizione dialettica e da cui si diparte, oltrepassando la resistenza, per costruire delle alternative». Insomma, l’altermodernità «è un dispositivo per la produzione di soggettività» che uniranno le loro forze in nome dell’intersezionalità. (p. 120)

Ci si sbaglierebbe nel vedere in questa proposta una tentazione libertaria, infatti «per poter aprire la strada alla rivoluzione, l’insurrezione deve sostenersi e consolidarsi con un processo istituzionale» in cui la moltitudine è costretta a «mettere le mani sugli apparati di Stato solo per smantellarli». Perciò il «coinvolgimento politico nelle istituzioni statuali è certamente utile e necessario per l’agibilità delle lotte contro la subordinazione. La liberazione, però, non può che proporsi la loro distruzione. L’insurrezione non è nemica delle istituzioni». Hardt e Negri intendono per istituzione qualcosa che, fondato sul conflitto, allarga lo strappo operato dalle rivolte contro l’ordine costituito (e contro le gerarchie delle identità) restando aperta ai conflitti interni. Le istituzioni diventano «componenti imprescindibili del processo insurrezionale e della rivoluzione» e per spiegare questa strana idea non potrebbero scegliere paragone più azzeccato: «Una definizione simile dell’istituzione è ricavabile dalle esperienze comuni che implementano le attività produttive nelle reti cibernetiche. Partiamo dai miti che hanno caratterizzato l’entusiasmo dei primi studi sulle implicazioni politiche della rete, come ad esempio l’impossibilità di esercitare un controllo, il fatto che la trasparenza della rete è sempre buona, e che lo sciame cibernetico è sempre intelligente. Le tecnologie informatiche hanno sicuramente incentivato lo sviluppo di processi decisionali assolutamente innovativi caratterizzati dalla molteplicità e dall’interattività. Mentre le vecchie élite socialiste sognavano le loro “macchine decisionali”, le esperienze degli operatori e degli utenti informatici configuravano un processo decisionale istituzionalizzato costituito da una miriade di microtraiettorie politiche. “Diventare media” è sinonimo di un costruttivismo comunicativo in cui il controllo collettivo dell’espressione in rete diventa un’arma politica.» (pp. 353-355)

In Comune la proposta politica di Hardt e Negri è abbandonare almeno formalmente i miti fondanti la sinistra comunista novecentesca, dal «mito della presa del potere nel senso dell’appropriazione della macchina dello Stato borghese» alla «creazione di un “contropotere” simmetrico e omologo alle strutture dell’ordine costituito». Ma dato che «il processo rivoluzionario non si svolge spontaneamente» esso va governato, e per farlo si ispirano a un tipo di federalismo contenuto nelle «analisi della governance svolte dagli studiosi del diritto e in particolare da un gruppo di giuristi tedeschi che si ispirano alla teoria sistemica elaborata da Niklas Luhmann», dimostrando ancora una volta di attingere a piene mani dal multiforme arsenale della cibernetica. (p. 369-371) Al tempo stesso, nelle pagine centrali del testo si approfondisce la frantumazione del soggetto fino a giungere, in linea con i contemporanei progressi delle politiche identitarie, alla «soppressione in noi stessi del pervicace attaccamento all’identità» (p. 381)

La fascinazione per la cibernetica e i suoi modelli di funzionamento, in questo terzo lavoro rimasta perlopiù sottotraccia, riemerge nelle pagine dell’ultima opera di Hardt e Negri, Assemblea del 2018, dove viene sancita la dissoluzione dell’identità in un “Noi, soggetti macchinici”. Pur riconoscendo che «tecnologie, modi di produzione e forme di vita sono sempre più intrecciati e alcuni di questi sviluppi tecnologici stanno creando disastri e cataclismi per l’umanità e la terra (…) non si risolve il problema semplicemente liberandoci della tecnologia: un simile obiettivo avrebbe poco senso dal momento che i nostri corpi e le nostre menti sono (e sono sempre stati) inestricabilmente connessi con diverse tecnologie. Così come il lavoro non è passivo rispetto al capitale, abbiamo relazioni attive con la tecnologia: creiamo tecnologie e soffriamo a causa loro, le rinnoviamo e poi le superiamo. Invece di rifiutare la tecnologia, dobbiamo partire dal tessuto tecnologico e biopolitico delle nostre vite e tracciare da lì un percorso di liberazione.» (Assemblea, p. 149)

 

 

Sommario 5.31

 

Riferimenti 5.31

  • Four Tet, Chiron + Liquefaction + Charm (Dialogue, 1999)
  • Matmos, Ur Tchun Tan Tse Qi + California Rhinoplasty (A Chance to Cut Is A Chance to Cure, 2001)
  • El Lebrijano, Bienaventuranzas (La palabra de dios a un gitano, 1972)
  • Kings of Convenience, The Weight of My Words (Four Tet Remix Instrumental) (Versus, 2001)
  • David Guetta x FiveAm ft Eminem, Future Rave Sound (2023)
  • Cabaret Voltaire, Just Fascination (Techology Western Re-Works, 1992)
  • Universe Zero, Carabosse (1313, 1977)
  • Cabaret Voltaire, I Want You (808 Heaven Mix) (Techology Western Re-Works, 1992)
  • Frankie hi-nrg mc, Nuvole (2020)
  • Orbe, Trashuman (Transhuman, 2021)

Episodio 5.30

Episodio 5.30

Mentre il primo testo della quadrilogia di Hardt e Negri era dedicato al biopotere imperiale, il secondo si concentra fin dal titolo sulla forza che gli si contrappone, ciò che ha sostituito i concetti di popolo, folla, massa e plebe: la moltitudine. Questa entità che, per quanto molteplice, non è frammentata, «non è anarchica né incoerente», è il grimaldello teorico utile ai due per svincolarsi da una “tradizione di sovranità” a cui erano rimasti legati i movimenti, le resistenze e le guerriglie comuniste novecentesche, incapaci di proporre un modello di libertà e eguaglianza poiché ancora impantanati nell’idea di un contropotere che a fine secolo iniziava a dimostrare tutti i suoi limiti. Al contrario, nella loro fantasia la moltitudine «è l’unico soggetto sociale capace di realizzare la democrazia, e cioè il potere esercitato da tutti», un soggetto che oltre a muoversi nell’ambito socioeconomico della classe e dello sfruttamento lavorativo, ruota attorno al feticcio della produzione biopolitica rappresentato da «la comunicazione, gli affetti e il sapere». Perciò la moltitudine si organizzerà attorno a nuove soggettività, sia quelle scaturite dall’ambito del lavoro immateriale (il famigerato general intellect), sia quelle legate a lotte e resistenze che riguardano la razza, il genere e il sesso.

Oltre ad ampie analisi delle nuove forme di governo mondiale e del funzionamento postfordista dei mercati globali, della produzione e del lavoro, nel libro troviamo alcune riflessioni su uno dei contesti più rappresentativi del concetto di biopolitica, quel mondo contadino che si sta dissolvendo e che per loro rappresenta uno dei cardini della moltitudine. Travolto e sconvolto dall’industrializzazione, anche con la complicità dei partiti e governi marxisti (compreso quello maoista), negli ultimi decenni è stato colonizzato anch’esso dal lavoro immateriale, come dimostra la questione dell’ingegneria genetica o della brevettabilità di sementi o specie viventi – piante e batteri modificati, fino all’Oncotopo. Nell’affrontare la questione della terra e della natura ecco che si evidenzia in tutta la sua grigia chiarezza qual è l’approccio spudoratamente cibernetico della moltitudine post-comunista:

«Il problema della proprietà è una questione assolutamente centrale nei dibattiti contemporanei sugli alimenti geneticamente modificati. Da molte parti è stato lanciato l’allarme sui cibi geneticamente modificati, sinistramente definiti “Frankenfoods”, i quali danneggerebbero gravemente la nostra salute e altererebbero in modo irreversibile l’ordine della natura. Quanti si oppongono alla sperimentazione genetica sulle specie vegetali ritengono che l’autenticità della natura e l’integrità delle sementi non debbano essere violate. A nostro parere, questo argomento puzza di teologia della purezza. (…) noi riteniamo invece che la natura e la vita, in quanto tali, siano di per sé già artificiali, e ciò diventa particolarmente chiaro a tutti nell’età del lavoro immateriale e della produzione biopolitica. Questo ovviamente non vuol dire che tutti gli interventi siano buoni: come tutti i mostri, anche i prodotti geneticamente modificati possono essere benefici o dannosi per la società. La migliore salvaguardia sarebbe quella di condurre gli esperimenti democraticamente, alla luce del sole e cioè sotto un controllo collettivo, cosa che viene in ogni modo impedita dalla proprietà privata. Abbiamo assolutamente bisogno di una mobilitazione permanente con cui esercitare un controllo democratico dei processi scientifici. Proprio come nei primi giorni della pandemia dell’Aids – quando i militanti di gruppi come Act-up divennero ben presto specialisti, riuscendo così a sfidare il diritto esclusivo degli scienziati di gestire la ricerca e le politiche sanitarie – anche oggi, i militanti devono diventare specialisti delle alterazioni genetiche e dei loro effetti, al fine di avviare un processo di controllo democratico. (…) Il problema, in altri termini, non è che gli uomini stiano sfidando la natura, ma è la natura che sta cessando di essere qualcosa di comune per diventare proprietà privata controllata esclusivamente dai suoi nuovi padroni.» (Moltitudine, pp. 214-215)

Occuparsi, ieri come oggi, delle lotte ecologiste è più che altro una questione strategica, un investimento di capitale militante per ottenere plusvalenze in termini di visibilità e reclutamento, e confrontandosi con i contadini i teorici della moltitudine rifuggono da ogni tentazione “passatista” che li spingerebbe verso una nostalgia che «anche quando non è immediatamente pericolosa, è comunque un segno di sconfitta. In tal senso, noi siamo sicuramente dei “postmodernisti”». Le politiche della moltitudine sono perciò «catastrofi sociali postmoderne», che agli occhi del potere imperiale «assomigliano alla mostruosità di un esperimento genetico finito male o alle terrificanti conseguenze dei disastri industriali, nucleari o ecologici. Tutto ciò che non ha forma ed è privo di ordine genera orrore. La mostruosità della carne non è un ritorno allo stato di natura: è un effetto sociale, una vita artificiale». Dunque, contro pericolose e reazionarie regressioni all’autenticità del bios, alla faccia della biopolitica, contro la spontaneità organizzata della natura e il ruolo che l’individualità affinata ha in essa, «qualsiasi discorso sulla vita deve tematizzare una vita artificiale, e cioè la vita in senso compiutamente sociale». Anticipando una moda discorsiva oggi molto in voga, l’avanzata della moltitudine corrisponderebbe dunque a un’invasione di mostri: «Frankenstein è finalmente diventato un membro della famiglia. In questo contesto, il discorso sugli esseri viventi si trasforma in una teoria della loro costruzione e dei possibili futuri che li attendono. Immersi come siamo in questa realtà instabile, messi a confronto con la deriva sempre più artificiale della biosfera e con la sistematica istituzionalizzazione del sociale, non possiamo che attenderci una continua proliferazione di mostri.» Ribadendo la spinta alla disumanizzazione che stiamo riscoprendo essersi affermata nel corso della tradizione cibernetica del secolo scorso, dai pensatori universitari ai movimenti dal basso il cerchio si chiude, il deserto del pensiero si espande e lo spirito si ritrova in catene, costretto a scambiare per libertà la sua mostruosa prigionia: «Deleuze decifrava la presenza del mostro nell’umano, affermando che l’uomo è l’animale che cambia la propria specie. Queste affermazioni vanno prese sul serio. I mostri stanno avanzando, e il metodo scientifico deve prenderne atto. L’umanità trasforma se stessa insieme alla storia e alla natura. In tal senso, il problema non è più quello di decidere se accettare o meno le tecniche che rendono possibili queste trasformazioni, ma è quello di imparare a usarle e di riconoscerne i benefici e i danni.» (pp. 227-229)

Ci risiamo: il disastro in corso provocato dall’autorità tecno-scientifica non dipende dalle procedure, da strumenti e materiali adoperati, dal livello di sfruttamento generalizzato che si porta dietro, ma è unicamente dovuto all’impossibilità di ciascuno di accedervi, a causa della privatizzazione che limita «l’accesso alle idee e all’informazione», che «ostacola la creatività e l’innovazione». La genetica come l’informatica potrebbero funzionare per il bene comune se si potesse tornare – ah, nostalgia canaglia! – a quella situazione di «creatività diffusa durante la prima ondata della rivoluzione cibernetica e dello sviluppo di Internet (…) resa possibile da una straordinaria apertura e accessibilità delle informazioni e delle tecnologie».

In perfetta continuità con il messaggio cibernetico, il problema diventa la fluidità della comunicazione e non il contenuto del messaggio e gli strumenti adoperati per diffonderlo, motivo per cui la malvagità dell’intelligenza artificiale o delle biotecnologie risiederebbe solamente nella cattura capitalista: «I microbiologi, i genetisti e gli scienziati che lavorano in campi affini sostengono con argomenti molto simili che le innovazioni scientifiche e l’avanzamento della conoscenza sono resi possibili unicamente dalla libertà di collaborare e dal libero scambio delle idee, delle tecniche e delle informazioni.» (p. 217)

 

 

Sommario 5.30

  • Introduzione con Sabotaggio riso OGM-TEA da Rai1
  • Sabotato il riso OGM-TEA, spuntano nuove sperimentazioni (con mobilitazioni contro Monsanto del maggio 2015 / Monsanto acquistata da Bayer nel settembre 2016) – TESTO
  • Milano, all’aeroporto di Linate arriva il face boarding, con  (TGCOM24, 7/5/2024)
  • TONG TONG, bambola meccanica o bambina robot? (Cina una bambina creata con AI fa compagnia agli anziani, TG1 26/4/2024 + Worlds First AI Child Tong Tong, AI adhoc 3/2/2024) – TESTO
  • Musk porta internet in Amazzonia gli effetti sulla tribu Marubo (TGCOM24, 5/6/2024)

 

Riferimenti 5.30

  • Organisation, Silver Forest (Tone Float, 1970)
  • Kraftwerk, Ruckzuck + Stratovarius (Kraftwerk I, 1970)
  • Spot Grazie Bayer (maggio 2020)
  • J Geco, Chicken Song (2013)
  • DJ Farm, The Chicken Song Techno Remix (2006)
  • J Geco, Chicken Song Remix (2016)
  • Krisma, Igloo Architecture (Iceberg, 1986)
  • Dmitri Shostakovich, Children’s Notebook Op. 69 (Tullio Forlenza plays Dmitri Shostakovich, 2008)
  • Garybaldi, Decomposizione, Preludio e Pace (Nuda, 1972)
  • Ondrej Adámek, Karakuri – Poupée mécanique (2011 –  Concerto dell’Ensemble Orchestral Contemporain al CRR di Rouen, 19/11/2013)
  • Klaus Schulze & Pete Namlook, Part III (The Dark Side Of The Moog Vol. 05 – Psychedelic Brunch, 1996)
  • Jorge Reyes & Suso Saiz, No Te Entiendo (Cronica De Castas, 1990)

Episodio 5.29

Episodio 5.29

Potrebbe sembrare una forzatura il fatto di voler ricondurre quel poco che si agita – o meglio, agonizza rantolando – nel magma dell’antagonismo sociale alle vecchie, datate e ipoteticamente superate posizioni che fondarono quella sciagura politica chiamata Disobbedienti, uno degli ultimi prodotti novecenteschi della sinistra cibernetica. Le Tute Bianche, che parevano essersi dissolte al G8 di Genova tra i fumogeni della repressione e la fumosità dei loro propositi, grazie ad alcune abili mosse e camuffamenti, alla complicità non disinteressata di certe parti del “movimento” e ai voltagabbana di altre, sono risorte come cyberfenici dal coma farmacologico e oggi sfilano sul palcoscenico dell’opposizione mediatizzata come Tute Grigie, essendo cambiato il colore dopo un incauto lavaggio con certe divise del blocco nero. La loro rinnovata egemonia, o pretesa tale, trova conferma nell’avanzata subdola delle posizioni pro-cyborg e transfemministe, tecnofile e al tempo stesso impegnate in difesa dell’ambiente, proprio come preconizzato da Hardt e Negri. È bastato presenziare a un paio di saloni del libro indipendente e politico per notare il predominio incontrastato dell’ideologia post importata – almeno alle nostre latitudini – principalmente da Michael e Toni.

L’evento tenutosi poche settimane fa a Milano tra Calusca e Cox18, proponeva un palco di tutto rispetto dove si metteva in scena una finzione di quel dibattito che in realtà NON c’è, proprio perché con queste premesse NON può esserci (questo la abbiamo ripetuto al punto da risultare noiosi). Le vedette, chi più chi meno, sono accomunate dall’essere di estrazione universitaria, altro grande lascito della tradizione postmoderna, giacché a quanto pare la teoria politica è loro prerogativa esclusiva (d’altronde basta guardare la stragrande maggioranza dei libri editi). Si tratta di nomi che, chi più chi meno, provengono direttamente dalla tradizione della franco-italian theory, dalla papessa dell’eterotopia deleuziana al grande statista disobba propugnatore dei redditi di cittadinanza; e nel non dibattito si sono dati come argomento – almeno nelle intenzioni, giacché poi nel corso delle esposizioni hanno letteralmente divagato, passando di palo in frasca e riuscendo a dire più o meno niente e il contrario di niente – il massimo della riflessione attuale possibile. Il temibilissimo passaggio dalla società disciplinare made in Foucault alle società di controllo come individuata da Deleuze e di cui parlava nel Poscritto del 1990 (in Pourparler, pp. 234-241), che guarda caso era stato già affrontato paro paro proprio dai due gringos altermondialisti nel capitolo di Impero intitolato “Il biopotere nella società del controllo”. Siamo ancora e sempre allo stesso punto?

Nei prossimi episodi vedremo come l’ideologia paleo-postumana di Hardt, Negri e compagnia narrante, non soltanto continui a diffondersi e ad affermarsi tra le giovani e diversamente vecchie leve di un fantomatico movimento che sembra la clonazione riproduttiva della moltitudine, ma financo faccia breccia e furore – ennesimo paradosso di una civiltà che ha smarrito senso e significato – tra gli ipotetici anarchici e libertari che queste tendenze egemoniche, alter-governative e contropotenti dovrebbero per natura disprezzare e combattere.

 

 

Sommario 5.29

 

Riferimenti 5.29

  • Holger Hiller, Once I Made A Snowman + Sur La Tête (Holger Hiller, 2000)
  • Sieg Heil, Viktoria! (1939)
  • Erika (Auf der Heide blüht ein kleines Blümelein) (1938)
  • Elisa, Bimbo mio (Dumbo, 2019)
  • Jah Servant, Kirk Davis, Roge Abergel, Lynette White, Phila, Suz-Eye, Can You Hear The Children Cry (Original Mix) (Set The Captives Free – A21Campaign, 2014)
  • Izumi Kobayashi, Infant Sorrow (iK.i, 1989)
  • Sungha Jung, When The Children Cry (White Lion cover) (2013)
  • Ebo Taylor Jnr., Children Don’t Cry (Afrobeat Airways 2Return Flight To Ghana 1974-1983 – Analog Africa Nr. 14, 2013)
  • The Modern Jazz Quartet, Tears from the Children (Blues On Bach, 1973)
  • Enrique Morente y Pepe Habichuela, Yo he visto a un niño llorar (Peteneras de Chacón) (Homenaje a D. Antonio Chacón, 1977)
  • E Lisa, Bimbo mio (Radio Edit) (2020)
  • The Modern Jazz Quartet, Tears from the Children (Live at Avery Fisher Hall, 1974)
  • Tears for Fears, Suffer the Children (1981)
  • John Lewis & Hank Jones, Tears From the Children (An Evening With Two Grand Pianos, 1979)
  • Carillon, Ninna Nanna di Brahms

Episodio 5.28

Episodio 5.28

Sull’onda della nascita del movimento contro la globalizzazione, Hardt e Negri si candidano a divenirne i principali ispiratori. Scritto fra il 1994 e il 1997, cioè dopo l’inizio della rivolta zapatista e prima della battaglia di Seattle, Impero – sebbene pieno di acrobazie, controsensi e talvolta brutali falsificazioni (come, d’altronde, il resto della produzione dei due) – preannuncia quella che sarà, nel trentennio a venire, la forma mentis e militantis della sinistra no-global. Infatti, dai gruppi più riformisti agli eredi di quella che in Italia fu l’autonomia (più o meno operaia) passando clamorosamente anche dai vituperati anarchici (o meglio, post-anarchici), in barba a differenze oramai più estetiche che sostanziali, la “moltitudine” degli autoproclamatisi ribelli, antagonisti, soggettività insorgenti e via narrando si forma e conforma a partire dalle mode politico-ideologiche rielaborate dal gatto e la volpe post-comunisti. Se la French Theory era una pappetta – dai gusti forti ma in fin dei conti insipida – cucinata nelle mense universitarie, ottenuta liofilizzando ingredienti ereditati dai numi tutelari di postmodernismo e poststrutturalismo, shakerando l’ultima produzione sociologica d’oltreoceano con l’aggiunta di qualche spezia cyberfemminista, l’intuizione del duo italo-americano è quella di innestarvi la sacra e sinistra tradizione italica che nel corso degli anni non si era eclissata, tutt’al più espatriata.

Già allora alcuni videro in questa operazione un puro e semplice tranello, una mano di vernice fresca data sulle mura decrepite di vecchi edifici teorici: secondo Claudio Albertani, si tratta di un «libro lungo e pieno di concetti oscuri come bio-potere, comando globale, sovranità imperiale, auto-valorizzazione, deterritorializzazione, produzione immateriale, ibridazione, moltitudine, e molti altri di difficile comprensione per lettori non iniziati», che per poter essere capito richiede «una certa familiarità con diverse scuole di pensiero: il post-strutturalismo francese, le teorie sociologiche nord-americane e l’operaismo italiano». (Impero e i suoi tranelli) Gran parte della bulimia intellettuale presente nella loro produzione è in realtà una trappola, un vortice di risucchio: infatti, pur prendendone le distanze e criticandone vari aspetti in modo formale, siamo di fronte alla riproposizione del marxismo-leninismo riveduto e corretto in salsa postuma(na), a un aggiornamento cibernetico del sistema operativo bolscevico. Seppur condannata a parole, si tratta della solita, vecchia ricerca dell’egemonia culturale, politica, strategica.

Dopo aver teorizzato l’esistenza di una nuova forma di governo imperiale priva di centro, vi contrappongono una resistenza altrettanto acefala, la moltitudine, che deve gran parte delle sue potenzialità proprio al fatto di essere figlia della civiltà cibernetica e come tale si candida alla conquista del potere e dei mezzi di produzione che sono sempre stati suoi. Dato che «l’ibridazione tra l’uomo e la macchina non procede più nei termini lineari che hanno segnato le vicende della modernità», si ipotizza che oggi «i rapporti di potere che hanno dominato le ibridazioni e le metamorfosi macchiniche possono essere rovesciati». Adesso capiamo che il nomadismo dei nuovi barbari secondo Hardt e Negri è più che altro virtuale, e mentre al sud del mondo si tratta di emigrazioni spaziali, fisiche, nel ricco occidente si tratta di metafore informatiche: «Le potenze scientifiche, affettive, linguistiche della moltitudine trasformano con estrema aggressività le condizioni della produzione sociale. La moltitudine si riappropria delle forze produttive con una metamorfosi radicale, come in una scena demiurgica. È una revisione completa della produzione della soggettività cooperante, una contaminazione e un meticciato con le macchine, di cui si era riappropriata, reinventandole completamente, la moltitudine. Si tratta, cioè, di un esodo che non è declinabile in termini esclusivamente spaziali, ma anche meccanici, nel senso che il soggetto si trasfonde in una macchina (nella quale ritrova la cooperazione che lo ha costituito e moltiplicato). È una nuova forma di esodo, un esodo verso (e con) la macchina – un esodo “macchinico”». (Impero, p. 341)

Si aprono le porte alla soggettività postumana, e da entità metaforica il cyborg inizia a militare nei ranghi della moltitudine. «Le nuove virtualità, la nuda vita del nostro presente, hanno la capacità di assumere il controllo della metamorfosi macchinica. Nell’Impero, la lotta politica sulla definizione della virtualità macchinica – e cioè sulle alternative del passaggio tra virtuale e reale – è il campo centrale delle lotte, poiché è il campo centrale della produzione e della vita che apre al lavoro un futuro di metamorfosi di cui la cooperazione soggettiva può e deve assumere il controllo sul piano etico, politico e produttivo.» (Ibid.) La sinistra postmoderna e post-anarcocomunista, dunque, trova nella figura del militante cibernetico il suo nuovo avatar, in quanto «agente della produzione biopolitica e della resistenza contro l’Impero»; ma gli autori tengono a specificare non trattarsi della solita vecchia figura del militante di partito o di organizzazione, questo è il passato, infatti nel nuovo mondo fluido e immateriale bisogna richiamare alla mente figure slegate dalla rigidità di dovere e disciplina, e quindi si pensa ai combattenti in Spagna o ai guerriglieri comunisti degli anni ’70, agli intellettuali antifascisti o ai Wobbly. Ecco la grande novità della militanza contemporanea: «essa recupera le virtù dell’azione insurrezionale maturate in duecento anni di esperienze sovversive, ma, nello stesso tempo, è legata a un mondo nuovo, un mondo che non conosce un al di fuori. La militanza conosce solo un dentro, la vitale e ineluttabile partecipazione al complesso delle strutture sociali senza alcuna possibilità di trascenderle. Il dentro è, allora, la cooperazione produttiva dell’intellettualità di massa e delle reti degli affetti, la produttività della biopolitica postmoderna. Questa militanza resiste nei contropoteri e si ribella proiettandosi in un progetto di amore. C’è un’antica leggenda che potrebbe illuminare la vita futura della militanza comunista: la leggenda di san Francesco di Assisi». (Impero, pp. 380-382) Amen.

 

 

Sommario 5.28

 

Riferimenti 5.28

  • Entropia, The April Theses (Vladimir Ilic Mix) + The Winter Palace in October (Bolshevik Direction Mix) (October Remixed, 2017)
  • Brandon Woodruff, Bolshevik Climax (Usurper King, 2018)
  • Spot ufficiale OMS “Tutti per la Salute, Salute per tutti”, 2024
  • Spot Elezioni Europee 2024, Ursula Von Der Layen e Partito Popolare Europeo
  • Atrium Carceri, Industrial District (Metropolis, 2015)
  • Atrium Carceri, Observatory (Ptahil, 2007)
  • Demetrio Stratos, Mirologhi 1 / Lamento D’Epiro + Segmenti Due (Metradora, 1976)
  • Pan Sonic, Pala (X, 1999)
  • Vladimir Dollar ’n’ ze Sheraf Orkestär, Housse de Camion Rouge (Petit camion rouge, 2014)
  • Nurse With Wound & Faust, Tu M’Entends? (Disconnected, 2007)

Episodio 5.27

Episodio 5.27

Nel Duemila l’uscita di Impero di Michael Hardt e Antonio Negri – annunciato dal New York Times come un nuovo “Manifesto del partito comunista” – ci ha offerto un ottimo esempio del grado di penetrazione del paradigma informatico presso una certa sinistra militante. Analizzando la rimessa in discussione del principio di sovranità nazionale a opera della globalizzazione, i due autori abbozzano il ritratto di una nuova fase del capitalismo: quella imperiale. Traendo la propria forza da un’economia informatica deterritorializzata e dal controllo cosiddetto biopolitico degli individui, l’impero rappresenta a loro avviso una forma inedita di potenza politica. Per rispondere teoricamente a questa nuova età del capitalismo, propongono una rilettura deleuziana della modernità in cui il concetto d’immanenza spodesta qualunque idea di trascendenza e dove lo spazio simbolico della rappresentazione politica sembra essere stato svuotato. Attraverso l’abolizione delle barriere tra classi, sessi e razze, la potenza della comunicazione dell’impero contribuisce alla creazione di un movimento di resistenza di tipo nuovo: la moltitudine. Emergendo dalla massa informe degli oppositori alla mondializzazione, la moltitudine avanza, come dei nuovi barbari, con il volto mascherato dall’ibridità. A immagine del cyborg, la moltitudine non conosce alcuna frontiera.

Richiamandosi a Donna Haraway, gli autori di Impero proclamano a gran voce che bisogna costruire «un nuovo corpo» per «creare vita nuova» (Hardt e Negri, Impero. Il nuovo ordine della globalizzazione, Rizzoli, Milano 2000, pp. 206). In questo modo vanno a ingrossare le fila dei militanti del postumano, come traspare da certe affermazioni: «I corpi stessi mutano e si trasformano per dare vita a nuovi corpi postumani. La prima condizione di questa trasformazione corporea è la consapevolezza che la natura umana non è in nessun modo separata dal resto della natura, che non vi sono limiti fissi e immutabili tra l’umano e l’animale, tra l’umano e la macchina, il maschile e il femminile e così via. Ma, soprattutto, si tratta della consapevolezza che la natura stessa è completamente artificiale ed è aperta a nuove mutazioni, mescolanze e ibridazioni» (p. 205)

Questi nuovi barbari, definiti anche una «nuova orda nomade», operando mutazioni corporee danno luogo a un «esodo antropologico» che però, come loro stessi ammettono, «è comunque molto ambiguo poiché i suoi metodi, l’ibridazione e la mutazione, sono gli stessi impiegati dalla sovranità imperiale. Nel mondo oscuro della fiction cyberpunk, ad esempio, la libertà della cura di sé è spesso indistinguibile dai poteri di un controllo onnipresente». Dunque le trasformazioni auspicate da Negri e Hardt vanno ben al di là delle mode corporali tipo tatuaggi e piercing: «Si deve giungere a un artificio politico, un “divenire artificiale” (…) Gli infiniti percorsi dei barbari devono creare un nuovo modo di vita.» (Ibid.)

Abbandonando il feticcio della decostruzione, Hardt e Negri pensano sia giunta l’ora di produrre a partire dagli utensili/protesi: «costruire, nel non-luogo, un luogo nuovo; costruire nuove determinazioni ontologiche dell’umano e della vita – un essere artificiale e potente. La favola cyborg di Donna Haraway che si muove tra gli ambigui confini dell’umano, dell’animale e della macchina, ci trasporta oggi, molto più efficacemente del decostruzionismo, verso nuovi piani del possibile – e tuttavia bisogna ricordare che è solo una favola. La forza che può trasportare (e con sempre maggiore intensità) oltre queste pratiche teoriche, verso l’attualizzazione di potenziali metamorfosi, resta l’esperienza comune delle nuove pratiche produttive e la concentrazione del lavoro sul corpo – plastico e fluido – delle nuove tecnologie meccaniche, biologiche e comunicative. Essere repubblicani oggi significa, innanzi tutto, lottare contro l’Impero costruendo all’interno di esso, sul suo stesso terreno ibrido e modulare. (…) questo nuovo terreno imperiale offre enormi possibilità creative e di liberazione. La moltitudine, nella sua volontà di essere contro e nel suo desiderio di liberazione, deve spingersi dentro l’Impero per uscirne fuori dall’altra parte.»

 

 

Sommario 5.27

  • Introduzione (VOTA Antonio!)
  • VOTA NAVE DEI FOLLI (Fantozzi, Bonelli su La7, presentazione della candidatura di Ilaria Salis, Inno “Pace, vita e libertà”, Cateno De Luca)
  • FOMO (Fear of Missing Out): La paura di essere disconnessi – TESTO
  • Lamento – da Jakob Van Hoddis, Fine del mondo (Gratis edizioni, 2024)
  • Intervista a Miquel Amorós per la rivista di ecologia politica della Svizzera romanda di Losanna Moins! (dicembre/gennaio 2024) – TESTO
  • Presentazione del libro DOPO INTERNET (ed. Nero, 2024), di Tiziana Terranova, con introduzione di Stamatia Portanova (Libbra, festival delle librerie indipendenti di Napoli, 3-5 maggio 2024) – AUDIO integrale

 

Riferimenti 5.27

  • Link, Arcadian (Global Communication Remix) (Artificial Intelligence II, 1994)
  • Sergio Corbucci, Gli onorevoli (1963)
  • Enzo Castellari, I nuovi barbari (1983)
  • Neri Parenti, Fantozzi subisce ancora (1983)
  • Cateno De Luca, Terra d’amuri! (2022)
  • Ben Russell, Yuki Numata Resnick & Max Richter, Richter: Dream 3-Jürgen Müller Remix (Sleep Remixes, 2016)
  • Nurse With Wound & Faust, It Will Take Time (Disconnected, 2007)
  • Moebius & Plank, Infiltration + Conditionierer + Tollkuhn (Material, 1981)
  • Les Chevals, Dracula + Cactus + Ushi’s Back (Brass Bande A La Conque, 2003)

Episodio 5.26

Episodio 5.26

Prima di continuare ad affrontare le parentele cibernetiche nelle epoche a noi più vicine, un’ultima divagazione sulla figura di Donna Haraway. Da aralda del cyborg e del postumano, questa scienziata sociale creatrice di vere e proprie mode ideologiche, come tutti i brand della sartoria d’eccellenza ha dovuto operare una continua innovazione per poter vendere i propri modelli. Infatti, nel suo ultimo lavoro di fantascienza politica chiamato Chthulucene abbandona le vecchie collezioni e si lancia in nuove fantasticherie al passo coi tempi, coniando un nuovo termine per descrivere quell’oggetto cibernetico già battezzato Gaia dal duo James Lovelock/Lynn Margulis e poi ripreso e ravvivato da Isabelle Stengers. Lo chiama Terrapolis, la città planetaria: «Terrapolis è ricca di mondo e vaccinata contro il postumanesimo; è ricca di compost e inoculata contro l’eccezionalismo umano, ed è ricca di humus: Terrapolis è pronta per una narrazione multispecie. Terrapolis non è la dimora dell’umano inteso come Homo, con la sua auto-immagine sempre uguale, fallica, al centro di ogni parabola, detumescente e ritumescente, ma è una dimora per l’umano che viene trasformato d’incanto – con un gioco di prestigio della lingua proprio dell’etimologia indoeuropea – in guman, colui che lavora la terra e nella terra.» (Chthulucene, p. 26)

Ma questa svolta in direzione dell’ambiente – che non a caso echeggia i progetti green del dominio e le sue città smart – rappresenta la sublimazione e non l’abbandono delle origini del suo pensiero, che pur superando almeno a parole il post-human resta profondamente ancorato alla disumanizzazione anti-naturalista: «Anche se continuo a nutrirmi del lavoro generativo inscritto in quel percorso, queste creature fibrose e tentacolari mi hanno reso insoddisfatta del postumanesimo. È stato il mio compagno Rusten Hogness a suggerirmi di sostituire il compost al postuman(esim)o, e l’humusità all’umanità (…) se solo potessimo sbriciolare e sfilacciare l’umano in quanto Homo, questa fantasia malata di un amministratore delegato perennemente intento ad autorealizzarsi e a distruggere il pianeta!» (Chthulucene, p. 54) Che il termine stesso di homo derivi da humus pare non interessare alla saccente accademica della supercazzola che, teorizzando una sorta di post-cibernetica, parte dalle sue radici storiche per aggiornarla e farla aderire alle nuove narrazioni pseudo-contestatarie. Haraway abbandona così i vecchi sistemi autopoietici – unità autonome che si «autoproducono» dotate di «confini spaziali e temporali autodefiniti che tendono al controllo centralizzato, all’omeostasi e alla prevedibilità» (Beth Dempster, A Self-Organizing Systems Perspective on Planning for Sustainability, tesi di laurea, Environmental Studies, University of Waterloo 1998) – per sostituirli con quelli simpoietici, concetto suggeritole da Beth Dempster, ovvero sistemi evolutivi che producono in maniera collettiva e non hanno confini spazio-temporali, in cui «l’informazione e il controllo sono distribuiti tra tutti i componenti». (Chthulucene, p. 54)

Non contenta, Haraway prende in prestito da Margulis il concetto di olobionte (Margulis, “Symbiogenesis and Symbionticism”, in Symbiosis as a Source of Evolutionary Innovation: Speciation and Morphogenesis, MIT Press 1991), per sottolineare non tanto l’impossibilità di ogni specie di vivere separata dalle altre e in particolare da quelle con cui sviluppa una profonda simbiosi, quanto la fine della separazione tra le specie. «Siamo humus, non Homo, non Antropos; siamo compost, non postumani. (…) Nello specifico, a differenza dell’Antropocene e del Capitalocene, lo Chthulucene è fatto di storie multispecie in via di svolgimento, di pratiche del con-divenire in tempi che restano aperti, tempi precari, tempi in cui il mondo non è finito e il cielo non è ancora crollato. (…) A differenza del dramma che domina il discorso dell’Antropocene e del Capitalocene, nello Chthulucene gli esseri umani non sono gli unici attori rilevanti; gli altri esseri non sono mere comparse che si limitano a reagire.» (Chthulucene, p. 85) All’orizzonte, si dissolve ogni differenza tra naturale e artificiale e si dichiara compiuto il passaggio all’ibridazione antropo-tecnologica: la nuova creatura sarà un cyborg biologico, magari anche equo e sostenibile.

Ma al di là dello sfoggio di acrobazie linguistiche, il progetto dei postumani compostati – purtroppo, non ancora rottamati – si è palesato in tutta la sua coerenza durante l’operazione pandemica, quando le schiere intersezionaliste si sono allineate al terrorismo scientista e hanno sostenuto reclusioni e distanziamenti, disinfestazioni e vaccinazioni. In un’intervista dell’estate del 2020 Haraway getta la mascherina e sforzandosi di non adoperare le categorie di opposizione binaria – tecnologia e natura – va dritta al sodo: «la tecnologia della “t” maiuscola ha lo stesso problema della scienza della “s” maiuscola: quindi tecnologie, lavoro tecnologico, know-how tecnologico, indagine tecnologica, sai, preziose conoscenze acquisite in lunghi periodi di tempo che davvero non vogliamo perdere. Direi che come fare un buon vaccino è un buon esempio. Questa non è esattamente una questione loro e nostra, anche se è vero che la produzione di vaccini è molto costosa e che lo stato ha rinnegato il suo obbligo, non solo negli Stati Uniti ma in molti luoghi, di assumersi la responsabilità della salute pubblica e dei suoi apparati, compreso lo sviluppo del vaccino e lo sviluppo del vaccino per chi e che tipo di canali di distribuzione. (…) Lo sviluppo di vaccini e lo sviluppo di farmaci richiedono le ultime novità in fatto di tecnologia digitale, tecnologia molecolare, tecnologia dei materiali. Supponiamo che tu voglia sviluppare vaccini resistenti al calore, in modo che possano essere davvero distribuiti in modo sicuro e ampiamente in tutto il mondo dagli operatori sanitari locali. Non vuoi avere bisogno di refrigerazione. Puoi immaginare la schiera di lavoratori tecnologici che vuoi concentrare su questi problemi, ma se sono concentrati su questi problemi pensando a loro solo in modi tecnici, potrebbero benissimo perdere il conto o non sapere in primo luogo, su come le popolazioni vivono in relazione ai patogeni, su come le popolazioni umane si relazionano ai patogeni e su come i patogeni entrano in diverse popolazioni umane in modo diverso. Il COVID-19 è di nuovo un ottimo esempio di chi è suscettibile e chi è esposto. Entrambi sono razzialmente differenziati e differenziati per classe in modi che non puoi perderti oggi. I nativi americani, i latini e i neri muoiono a più del doppio rispetto agli anglosassoni negli Stati Uniti di malattia COVID-19. Quindi, vaccini, certo! Ma perché certi gruppi, certe popolazioni umane, interagiscono con i patogeni in modo diverso dagli altri? Bene, questa è una questione politica, oltre che biologica, e culturale, e storica.» (“In the Heart of the Storm: An Interview with Donna Haraway – Part 1: Species-Being in the Age of Climate Change, Coronavirus, and Capitalism”, intervista di Katherine Bryant e Erik Wallenberg , in Bio-Politics, Vol 23, n° 3, 2020)

Se il sottotitolo della traduzione italiana di Chthulucene è per l’appunto “sopravvivere su un pianeta infetto” (il libro in realtà in inglese era intitolato Staying With the Trouble, qualcosa come restare accanto, o meglio coabitare, con il problema), ora capiamo cosa si intende: la supposta armonia delle specie è in realtà una presa per il culo e funziona soltanto quando fa comodo alla specifica narrazione. La convinzione che il presunto virus sia piombato sugli umani a causa dello spillover – unita al falso assunto secondo cui i popoli più deboli avrebbero patito maggiormente la mortalità virale – colloca i postumani al gusto di humus nel novero dei nemici dell’umanità libera e sottolinea una volta di più il loro ruolo cruciale nell’attuale antropocidio. Che personaggi simili, assieme alle loro idee, possano non sopravvivere all’infezione generalizzata dell’acrazia.

Donna Haraway, la natura e paura – Tra questi animali non umani, uno solo non è un peluche artificiale: indovina chi! (Soluzione in fondo alla puntata)

 

 

Sommario 5.26

  • Introduzione con Tedros Adhanom Ghebreyesus, direttore generale dell’OMS
  • La Nave Dei Folli presenta: FUTURO ONNIPRESENTE – Spunti di riflessione su limiti e possibilità della resistenza all’avvenire cibernetico nell’epoca del totalitarismo scientista  (dicembre 2023) – QUINDICESIMA PARTE Puntate complete
  • Fine del mondo – da Jakob Van Hoddis. Fine del mondo (Gratis edizioni, 2024)

 

Riferimenti 5.26

  • Richard H. Kirk, Neuroscience (Neuroscience, 2009)
  • Alfonso Cuarón, I figli degli uomini (2006)
  • Machina Amniotica, East Jinx_live! (28 ottobre 2017 – Ex-Manifattura Tabacchi, Cagliari)
  • Lisa Gerrard & Pieter Bourke, The Human Game (Duality, 1998)
  • Coil, I Am the Green Child (Constant Shallowness Leads to Evil, 2000)
  • Machina Amniotica, Grantchester Meadows (The Body, 2003)
  • Moby, Like a Motherless Child (Everything Was Beautiful, and Nothing Hurt, 2018)
  • Lisa Gerrard & Pieter Bourke, Pilgrimage of Lost Children (Duality, 1998)
  • Limbo, High Resolution Holocaust + Dominio e Sottomissione (Evirazione Totemica Seriale, 1993)
  • Nurse With Wound & Faust, Lass Mich (Disconnected, 2007)
  • MC5, Future/Now (High Times, 1971) – TESTO

SOLUZIONE: la teiera sulla panchina.

Episodio 5.25

Episodio 5.25

Per un curioso dirottamento del senso, un pensiero nato dalla guerra e dal controllo militare è diventato uno dei principali punti d’incontro ideologico della sinistra americana, prima, mondiale poi. La biologa e storica delle scienze Donna Haraway ha aperto la strada pubblicando negli anni Ottanta il suo Cyborg Manifesto, di cui ci siamo già occupati nel corso della Quarta Stagione (Vedi in particolare episodi 4.23/24/25). Spingendo ai limiti estremi la critica dell’universalismo moderno, attacca quello che definisce “femminismo umanista” erede della modernità euroamericana. In una prospettiva postcolonialista e postmoderna, Haraway denuncia la fissazione delle identità in termini di classe, sesso e razza. Così come quella di razza, l’identità sessuale diventa nei suoi scritti una pura costruzione socio-storica destinata a naturalizzare uno stato di oppressione sociale. Di fronte a una simile naturalizzazione del potere maschile, l’abolizione cibernetica delle dicotomie tra natura e cultura, umano e macchina, maschile e femminile sono per lei una fonte di liberazione, permettendo alle donne di affrancarsi dal pesante giogo di essere femmine. (Donna J. Haraway, Manifesto Cyborg. Donne, tecnologie e biopolitiche del corpo [1985], Feltrinelli, Milano 1995, pp. 55-62)

Malgrado le sue origini militari il cyborg, quest’essere metà umano metà macchina, metà maschio metà femmina, incarna il livello di ibridazione raggiunto da questa liberazione identitaria. Haraway non nega il potenziale di dominio delle nuove tecnologie dell’informazione e del biotech, però vi scorge un’importante possibilità sovversiva. Il femminismo cyborg sogna un mondo ibrido, senza sesso e senza genere, dove le donne saranno finalmente liberate da quel ruolo riproduttivo predestinato dalla loro natura. Le tecnologie di riproduzione infatti sono l’ambito in cui il femminismo radicale più si accorda al progetto di rimodellamento del corpo umano dell’ingegneria genetica. Ma c’è di più.

In questi ultimi anni il pensiero – se così si può definire questo flusso psicotico di narrazioni speculative zeppe di acrobazie linguistiche e controsensi – di Donna Haraway e delle sue molte epigoni si è evoluto in maniera subdola e pericolosa, in accordo con il coinvolgimento della sinistra postumana nel campo delle lotte in difesa della Terra in cerca di una rinnovata verginità. Non a caso il suo ultimo lavoro è diventato uno dei principali punti di riferimento per i movimenti verdi metallizzati che si agitano sulla odierna ribalta dello spettacolo della contestazione, sebbene dubitiamo assai che lo abbiano compreso (dato il linguaggio criptico e iniziatico) e forse nemmeno letto, proprio come gli altri testi di riferimento del trans/post/xenofemminismo.

Il suo Chthulucene. Sopravvivere su un pianeta infetto (raccolta di saggi scritti tra il 2012 e il 2016) meriterebbe forse una disamina più approfondita. Ci abbiamo provato, ma confessiamo di non averci capito un granché, smarriti tra frasi incomprensibili, linguaggio innovativo e veri e propri nonsense. L’idea che ce ne siamo fatti, con buona pace dei nemici delle pratiche coercitive psichiatriche tra cui ci annoveriamo, è che l’epoca sognata da questa corrente post-cyborg assomiglia a uno Psycocene, dove la mutazione genetica si sposa con l’ambientalismo e la violenza dell’ibridazione meccanica coabita con la simbiosi ecologica. In breve, una follia a metà tra infantilismo e allucinazione. Fin qui, nulla di nuovo.

«Lo Chthulucene ha bisogno di uno slogan, o anche più di uno. Oltre a gridare “Cyborg per la sopravvivenza sulla Terra”, “Corri veloce, mordi più che puoi” e “Taci e impara”, io suggerisco il “Generate parentele, non bambini!”. Generare e riconoscere le parentele è la parte più complicata e urgente di questa proposizione. Le femministe sono state le prime a sciogliere i presunti legami naturali e necessari tra sessualità e genere, razza e sesso, razza e nazione, classe e razza, genere e morfologia, sesso e riproduzione, persone che riproducono e persone che compongono. (…) Se vogliamo l’eco-giustizia multispecie, un tipo di giustizia che possa anche accogliere una popolazione umana diversificata, è tempo che le femministe prendano le redini dell’immaginazione, della teoria e dell’azione per sciogliere ogni vincolo tra genealogia e parentela, e tra parentela e specie. Batteri e funghi non fanno che fornirci metafore, ma le metafore non bastano: le metafore fondate sulla natura non sono sufficienti. Qui c’è da fare un lavoro da mammiferi, insieme ai nostri collaboratori e co-lavoratori simpoietici biotici e abiotici. Dobbiamo generare parentele in sinctonia e in simpoiesi.» (Donna Haraway, Chthulucene. Sopravvivere su un pianeta infetto, Nero, Roma 2019, p. 147)

Ci si potrebbe fare una grassa risata, leggendo questi o altri passaggi, non ci fosse invece da preoccuparsi della presa che tali deliri hanno sulle nuove generazioni di militontismo, anche in salsa ecologista, come dimostra il recente aborto (spontaneo) della manifestazione nazionale contro gli OGM-TEA a causa di dissapori interni dovuti alla mancata egemonizzazione da parte della sinistra transcibernetica che non può accettare di veder mettere in discussione la sua supremazia culturale.

Queste teorie, nate nel blackout mentale prodotto dalla fine della storia e favorite dall’arretramento delle teorie-pratiche dell’acrazia, riempiono le bocche dei suoi follower di paroloni come rivoluzione e anticapitalismo, sebbene rappresentino il fulgido esempio dell’impossibilità della prima, scaduta ormai nell’imperante riformismo socialdemocratico, e sanciscano l’ineluttabilità di un mondo dominato da finanza e tecnoscienze, vista la natura delle sue false opposizioni. Non soltanto queste figure, peraltro provenienti dal mondo accademico delle scienze sociali, sono strumentali alla perennizzazione dei rapporti iniqui che taluni chiamano Capitale, ma con le loro psico-narrazioni contribuiscono – chissà, forse positivamente – a sbugiardare come connivente col nemico e profondamente liberticida questo guazzabuglio postmarxista.

 

 

Sommario 5.25

  • Per non dimenticare: Mario Draghi e Roberto Speranza
  • Introduzione
  • Per non dimenticare: Sergio Mattarella
  • SULLA (NON) MANIFESTAZIONE CONTRO GLI OGM/TEA, con intemezzi di Francesco Lollobrigida (Ministro dell’agricoltura, della sovranità alimentare e delle foreste, dicembre 2023), Alessandro Beduschi (Assessore all’agricoltura regione Lombardia, 28 marzo 2024); Vittoria Brambilla (genetista responsabile epserimento riso TEA, 28 marzo 2024) – TESTO
  • La Nave Dei Folli presenta: FUTURO ONNIPRESENTE – Spunti di riflessione su limiti e possibilità della resistenza all’avvenire cibernetico nell’epoca del totalitarismo scientista  (dicembre 2023) – QUATTORDICESIMA PARTE Puntate complete

 

Riferimenti 5.25

  • Chac Mool, Mundo Feliz (Nadie En Especial, 1980)
  • Klaus Schulze, Neuronengesang (Cyborg, 1973)
  • Гимн партии большевиков (Inno del Partito Bolscevico, 1938)
  • Jon D, Soviet Techno Anthem Remix (2014)
  • Coro delle Mondine di Correggio, Son la mondina son la sfruttata (Mondariso, 1996)
  • James Holden, Idiot Clapsolo (The Idiots Are Winning, 2006)
  • Hellbound, The End Was Inevitable (Anti-System) (The New Warsystem Order, 2002)
  • Clock DVA, Connection Machine (Buried Dreams, CD bonus tracks, 1998)
  • Indian Calling, Indian War Dance (Native American Spirit, 2014)
  • Clock DVA , Final Program (Decoded 2) (Final Program, 1991)
  • Atrium Carceri, Sacrifice To The Machine (Codex, 2018)
  • Jocelyn Pook, Oppenheimer (Flood, 1999) – TESTO
  • Rak Shaza, La Guerra dei Vampiri (Black Shaza, 2013)