Episodio 5.30
Mentre il primo testo della quadrilogia di Hardt e Negri era dedicato al biopotere imperiale, il secondo si concentra fin dal titolo sulla forza che gli si contrappone, ciò che ha sostituito i concetti di popolo, folla, massa e plebe: la moltitudine. Questa entità che, per quanto molteplice, non è frammentata, «non è anarchica né incoerente», è il grimaldello teorico utile ai due per svincolarsi da una “tradizione di sovranità” a cui erano rimasti legati i movimenti, le resistenze e le guerriglie comuniste novecentesche, incapaci di proporre un modello di libertà e eguaglianza poiché ancora impantanati nell’idea di un contropotere che a fine secolo iniziava a dimostrare tutti i suoi limiti. Al contrario, nella loro fantasia la moltitudine «è l’unico soggetto sociale capace di realizzare la democrazia, e cioè il potere esercitato da tutti», un soggetto che oltre a muoversi nell’ambito socioeconomico della classe e dello sfruttamento lavorativo, ruota attorno al feticcio della produzione biopolitica rappresentato da «la comunicazione, gli affetti e il sapere». Perciò la moltitudine si organizzerà attorno a nuove soggettività, sia quelle scaturite dall’ambito del lavoro immateriale (il famigerato general intellect), sia quelle legate a lotte e resistenze che riguardano la razza, il genere e il sesso.
Oltre ad ampie analisi delle nuove forme di governo mondiale e del funzionamento postfordista dei mercati globali, della produzione e del lavoro, nel libro troviamo alcune riflessioni su uno dei contesti più rappresentativi del concetto di biopolitica, quel mondo contadino che si sta dissolvendo e che per loro rappresenta uno dei cardini della moltitudine. Travolto e sconvolto dall’industrializzazione, anche con la complicità dei partiti e governi marxisti (compreso quello maoista), negli ultimi decenni è stato colonizzato anch’esso dal lavoro immateriale, come dimostra la questione dell’ingegneria genetica o della brevettabilità di sementi o specie viventi – piante e batteri modificati, fino all’Oncotopo. Nell’affrontare la questione della terra e della natura ecco che si evidenzia in tutta la sua grigia chiarezza qual è l’approccio spudoratamente cibernetico della moltitudine post-comunista:
«Il problema della proprietà è una questione assolutamente centrale nei dibattiti contemporanei sugli alimenti geneticamente modificati. Da molte parti è stato lanciato l’allarme sui cibi geneticamente modificati, sinistramente definiti “Frankenfoods”, i quali danneggerebbero gravemente la nostra salute e altererebbero in modo irreversibile l’ordine della natura. Quanti si oppongono alla sperimentazione genetica sulle specie vegetali ritengono che l’autenticità della natura e l’integrità delle sementi non debbano essere violate. A nostro parere, questo argomento puzza di teologia della purezza. (…) noi riteniamo invece che la natura e la vita, in quanto tali, siano di per sé già artificiali, e ciò diventa particolarmente chiaro a tutti nell’età del lavoro immateriale e della produzione biopolitica. Questo ovviamente non vuol dire che tutti gli interventi siano buoni: come tutti i mostri, anche i prodotti geneticamente modificati possono essere benefici o dannosi per la società. La migliore salvaguardia sarebbe quella di condurre gli esperimenti democraticamente, alla luce del sole e cioè sotto un controllo collettivo, cosa che viene in ogni modo impedita dalla proprietà privata. Abbiamo assolutamente bisogno di una mobilitazione permanente con cui esercitare un controllo democratico dei processi scientifici. Proprio come nei primi giorni della pandemia dell’Aids – quando i militanti di gruppi come Act-up divennero ben presto specialisti, riuscendo così a sfidare il diritto esclusivo degli scienziati di gestire la ricerca e le politiche sanitarie – anche oggi, i militanti devono diventare specialisti delle alterazioni genetiche e dei loro effetti, al fine di avviare un processo di controllo democratico. (…) Il problema, in altri termini, non è che gli uomini stiano sfidando la natura, ma è la natura che sta cessando di essere qualcosa di comune per diventare proprietà privata controllata esclusivamente dai suoi nuovi padroni.» (Moltitudine, pp. 214-215)
Occuparsi, ieri come oggi, delle lotte ecologiste è più che altro una questione strategica, un investimento di capitale militante per ottenere plusvalenze in termini di visibilità e reclutamento, e confrontandosi con i contadini i teorici della moltitudine rifuggono da ogni tentazione “passatista” che li spingerebbe verso una nostalgia che «anche quando non è immediatamente pericolosa, è comunque un segno di sconfitta. In tal senso, noi siamo sicuramente dei “postmodernisti”». Le politiche della moltitudine sono perciò «catastrofi sociali postmoderne», che agli occhi del potere imperiale «assomigliano alla mostruosità di un esperimento genetico finito male o alle terrificanti conseguenze dei disastri industriali, nucleari o ecologici. Tutto ciò che non ha forma ed è privo di ordine genera orrore. La mostruosità della carne non è un ritorno allo stato di natura: è un effetto sociale, una vita artificiale». Dunque, contro pericolose e reazionarie regressioni all’autenticità del bios, alla faccia della biopolitica, contro la spontaneità organizzata della natura e il ruolo che l’individualità affinata ha in essa, «qualsiasi discorso sulla vita deve tematizzare una vita artificiale, e cioè la vita in senso compiutamente sociale». Anticipando una moda discorsiva oggi molto in voga, l’avanzata della moltitudine corrisponderebbe dunque a un’invasione di mostri: «Frankenstein è finalmente diventato un membro della famiglia. In questo contesto, il discorso sugli esseri viventi si trasforma in una teoria della loro costruzione e dei possibili futuri che li attendono. Immersi come siamo in questa realtà instabile, messi a confronto con la deriva sempre più artificiale della biosfera e con la sistematica istituzionalizzazione del sociale, non possiamo che attenderci una continua proliferazione di mostri.» Ribadendo la spinta alla disumanizzazione che stiamo riscoprendo essersi affermata nel corso della tradizione cibernetica del secolo scorso, dai pensatori universitari ai movimenti dal basso il cerchio si chiude, il deserto del pensiero si espande e lo spirito si ritrova in catene, costretto a scambiare per libertà la sua mostruosa prigionia: «Deleuze decifrava la presenza del mostro nell’umano, affermando che l’uomo è l’animale che cambia la propria specie. Queste affermazioni vanno prese sul serio. I mostri stanno avanzando, e il metodo scientifico deve prenderne atto. L’umanità trasforma se stessa insieme alla storia e alla natura. In tal senso, il problema non è più quello di decidere se accettare o meno le tecniche che rendono possibili queste trasformazioni, ma è quello di imparare a usarle e di riconoscerne i benefici e i danni.» (pp. 227-229)
Ci risiamo: il disastro in corso provocato dall’autorità tecno-scientifica non dipende dalle procedure, da strumenti e materiali adoperati, dal livello di sfruttamento generalizzato che si porta dietro, ma è unicamente dovuto all’impossibilità di ciascuno di accedervi, a causa della privatizzazione che limita «l’accesso alle idee e all’informazione», che «ostacola la creatività e l’innovazione». La genetica come l’informatica potrebbero funzionare per il bene comune se si potesse tornare – ah, nostalgia canaglia! – a quella situazione di «creatività diffusa durante la prima ondata della rivoluzione cibernetica e dello sviluppo di Internet (…) resa possibile da una straordinaria apertura e accessibilità delle informazioni e delle tecnologie».
In perfetta continuità con il messaggio cibernetico, il problema diventa la fluidità della comunicazione e non il contenuto del messaggio e gli strumenti adoperati per diffonderlo, motivo per cui la malvagità dell’intelligenza artificiale o delle biotecnologie risiederebbe solamente nella cattura capitalista: «I microbiologi, i genetisti e gli scienziati che lavorano in campi affini sostengono con argomenti molto simili che le innovazioni scientifiche e l’avanzamento della conoscenza sono resi possibili unicamente dalla libertà di collaborare e dal libero scambio delle idee, delle tecniche e delle informazioni.» (p. 217)
Sommario 5.30
- Introduzione con Sabotaggio riso OGM-TEA da Rai1
- Sabotato il riso OGM-TEA, spuntano nuove sperimentazioni (con mobilitazioni contro Monsanto del maggio 2015 / Monsanto acquistata da Bayer nel settembre 2016) – TESTO
- Milano, all’aeroporto di Linate arriva il face boarding, con (TGCOM24, 7/5/2024)
- TONG TONG, bambola meccanica o bambina robot? (Cina una bambina creata con AI fa compagnia agli anziani, TG1 26/4/2024 + Worlds First AI Child Tong Tong, AI adhoc 3/2/2024) – TESTO
- Musk porta internet in Amazzonia gli effetti sulla tribu Marubo (TGCOM24, 5/6/2024)
Riferimenti 5.30
- Organisation, Silver Forest (Tone Float, 1970)
- Kraftwerk, Ruckzuck + Stratovarius (Kraftwerk I, 1970)
- Spot Grazie Bayer (maggio 2020)
- J Geco, Chicken Song (2013)
- DJ Farm, The Chicken Song Techno Remix (2006)
- J Geco, Chicken Song Remix (2016)
- Krisma, Igloo Architecture (Iceberg, 1986)
- Dmitri Shostakovich, Children’s Notebook Op. 69 (Tullio Forlenza plays Dmitri Shostakovich, 2008)
- Garybaldi, Decomposizione, Preludio e Pace (Nuda, 1972)
- Ondrej Adámek, Karakuri – Poupée mécanique (2011 – Concerto dell’Ensemble Orchestral Contemporain al CRR di Rouen, 19/11/2013)
- Klaus Schulze & Pete Namlook, Part III (The Dark Side Of The Moog Vol. 05 – Psychedelic Brunch, 1996)
- Jorge Reyes & Suso Saiz, No Te Entiendo (Cronica De Castas, 1990)